Mariotto Segni e la rivoluzione incompiuta. “Ma il primo referendum non si scorda mai”

Mariotto Segni è nato a Sassari e ha sessantanove anni. E’ il protagonista della primavera dei referendum elettorali che hanno cambiato l’Italia. Dall’abolizione della preferenza multipla a favore di quella unica (9 giugno 1991), fino alla consultazione che nel 1993 finì per introdurre un meccanismo di voto in prevalenza uninominale al posto della storica proporzionale. Paladino dell’elezione diretta dei sindaci, Segni è stato deputato della Dc (la prima volta nel 1976). L’ultima volta da parlamentare nel ’99 a Strasburgo, eletto con una lista propria presentata insieme con An sotto il simbolo dell’elefantino. Ma le sue posizioni da liberale conservatore lo hanno portato spesso fuori dai due poli, e critico sia con Prodi che con Berlusconi.

Oggi Segni è docente universitario di diritto civile e promotore, con altri, del referendum super-maggioritario che si dovrà celebrare entro un anno. Sposato, è padre di tre figlie. Suo padre Antonio fu presidente della Repubblica dal 1962 al 1964.   

 

Il primo referendum non si scorda mai. Lei come se lo ricorda?

“E’ vero. Il mio amore indimenticabile porta la data del 9 giugno 1991, punto di svolta tra prima e seconda Repubblica. Se ci ripenso, provo un misto di speranza e di malinconia. Ci sembrò l’alba di una stagione radiosa. Invece fu solo l’alba: da qui la malinconia. Ma l’Italia si svegliò, e questa fu una grande sorpresa. Era giusto sperare, e continuare a sperare”.

L’Italia quant’è cambiata rispetto ad allora, o fatto il referendum trovato l’inganno?

“L’Italia è un altro Paese, da allora. Ricordo che l’informazione dell’epoca ci ignorò. Al Tg 1 di Bruno Vespa non mi chiamarono neppure una volta. Di più, l’unico servizio che era stato preparato al riguardo, fu cancellato”.

Oggi non accadrebbe più.

“Dice? Sì, l’informazione oggi è più varia. Ma un certo atteggiamento è rimasto immutabile. Dell’ultimo referendum promosso, e che porterà l’Italia verso un bipartitismo di fatto, io non ho avuto il piacere di avere neanche un minuto a “Porta a porta” per poterlo presentare…”.

Ma un moderato, moderatissimo come lei, perché si è appassionato alla rivoluzione referendaria?

“Vittorio Feltri ha scritto che io sono stato l’unico rivoluzionario del Novecento. Non potevo essere concorrente di Mussolini, che era nato nell’Ottocento…Ma forse vale ancora la risposta che diedi a Indro Montanelli, quando mi disse, come lei mi sta dicendo ora, che io non ho un temperamento rivoluzionario. “L’unico modo per sentirsi rivoluzionari in Italia, è parlar bene dei carabinieri”, gli risposi”.

Quanto pesa il ricordo, la suggestione del ruolo istituzionale di suo padre, che fu presidente della Repubblica?  

Segni riflette un po’, in un silenzio che sembra non finire mai, e finalmente: “Ha pesato senz’altro, ma in modo diverso rispetto a quello che uno si attenderebbe. L’insegnamento di mio padre, ripetuto fino alla nausea, fu il seguente: “Tròvati qualcos’altro nella vita, prima di fare politica. Perché devi essere sempre pronto a sbattere la porta del Palazzo, e andartene”.

E’ ancora favorevole al presidenzialismo o almeno al “sindaco d’Italia”, come lei chiamava la scelta del primo ministro da parte del popolo?

“Assolutamente sì. L’elezione diretta del primo ministro sarebbe la forma presidenziale migliore per l’Italia. Perché da noi è il governo al centro della politica, e dunque è il governo che va democratizzato al massimo. E’ la differenza rispetto alla Francia, dove vige una concezione quasi monarchica del potere, e perciò l’elezione riguarda il presidente della Repubblica”.

Sarà una legislatura costituente, l’attuale?

“No, non credo affatto. Il sistema è tendenzialmente impossibilitato ad auto-riformarsi. E’ cambiato e cambierà, solamente se costretto dai referendum. Di fronte al dilemma delle riforme, il sistema risponde sempre allo stesso modo: o le fa, sotto la spinta, appunto, referendaria, o le affossa”.

Confida o diffida del federalismo fiscale?

“Diffido. Diffido di tutta la corrente culturale e politica nella quale il federalismo è nato e della quale si nutre. Perché il federalismo non è un fenomeno anti-statalista, come molti credono in buona fede, sbagliando, ma è anti-statuale, anti-italiano e anti-europeo. Bossi è riuscito a far passare un’idea pericolosissima, l’idea che il più piccolo debba fare per sé. L’idea che ognuno si tenga i suoi mezzi e le sue risorse. Ma noi siamo un grande Paese, una grande Nazione d’Europa, proprio perché non siamo un insieme raccogliticcio di Regioni o di Comuni. Non mi faccio illusioni: se il federalismo sarà una cosa seria, sfascerà la finanza pubblica. Altrimenti, nel caso ancora peggiore, sfascerà l’Italia”.

Ma il suo referendum elettorale super-maggioritario che fine farà, in un Parlamento che più bipolare di così non si può?

“Il clima politico sta esprimendo un chiaro desiderio di ritornare al proporzionale. Massimo D’Alema maschera questa nostalgia travestendola da “modello tedesco”. L’opposizione a questa volontà trasversale è rappresentata dalla coppia Berlusconi-Fini, che per convinzione o per calcolo si mantiene ferma sul meccanismo bipolare. Ma il referendum avrà l’ostilità del cosiddetto establishment, questo è sicuro. Perché farà fare un altro passo all’Italia politica per entrare in Inghilterra, cioè per acquisire un sistema bipartitico”.

E se parti della maggioranza e dell’opposizione si mettono d’accordo per boicottarlo, il referendum, tipo invitando gli italiani ad andare al mare la domenica del voto, Mario Segni che fa? 

“Mario Segni va a votare”.

Non teme che sia esagerato arrivare a un sistema ultra-maggioritario -come prevede il suo quesito- in un Paese che non vive in bianco o nero, ma di colorite differenze? 

“Quest’obiezione legittima ci veniva fatta anche quando cercavamo di introdurre l’elezione diretta dei sindaci. “Ma l’Italia è il Paese delle cento città, non si può semplificare il tutto”, ripetevano. Bene. Quindici anni dopo, gli italiani sono felicissimi del modo nuovo col quale eleggono il primo cittadino. E pure i presidenti di Regioni e Province. Il bipartitismo non cancella le piccole formazioni, ma dà maggiore potere di scelta agli elettori e autentica stabilità ai governi. Certo, va accompagnato da altre cose, per evitare il consolidamento della casta, che rappresenta il vero e forte processo negativo in corso. E per rompere con l’immobilismo, col familismo, col sistema ingessato e raccomandato di cui è artefice solo la classe politica”.

Artefice “solo” la politica in che senso?

“Guardi lo sconcio delle liste elettorali bloccate, che danno vita ad assemblee parlamentari nominate dai vertici di partito, anziché scelte dal popolo. E ormai abbiamo già votato due volte con questo sistema, che adesso si vuole persino estendere al prossimo voto europeo! Ma la classe politica è responsabile anche dell’inesistenza dei partiti come luogo di dibattito. Sono anni che non assistiamo a veri congressi, da Forza Italia all’ultima delusione del Pd con la sua direzione “nominata” da Walter Veltroni. Infine, l’offensiva sulla giustizia e le “balle” sul garantismo, che in realtà nascondono il desiderio di impunità. E così il cerchio si chiude: la casta in mano ai capi bastone decisori di tutto, il ritorno del “centralismo democratico” nei partiti e la giustizia all’angolo. Il referendum serve per spezzare questo schema, che perpetua gli intoccabili”.

Esiste uno schema alternativo, spezzate le catene?

“Le primarie, ma quelle vere che, per esempio, a suo tempo incoronarono Romano Prodi. Non ha idea di quanti italiani non di sinistra incontravo, che mi dicevano d’aver votato fra quei quattro milioni di mobilitati. Primarie, dunque, aperte, dove sia il cittadino a scegliere con libertà. Come in America, dove la novità ha portato all’opzione tra una donna e un nero in casa democratica. Anch’io, peraltro, avrei scelto Obama”.

E tra Obama e McCain per la Casa Bianca?

“Di nuovo Obama”.

Dei soliti modelli istituzionali francese, tedesco, anglosassone o spagnolo che si citano -e quasi sempre a sproposito-, lei quale invidia di più?

“Nella lunga stagione referendaria noi ci ispirammo al modello francese, perché i due Paesi latini sono molti simili. Però non abbiamo mai preso quell’esempio, che anche in Francia, tra l’altro, ha conosciuto enormi difficoltà per assestarsi, come una religione. Preferisco immaginare un modello italiano. Il cui principio cardine sia il seguente: il governo lo scelgono i cittadini, e soltanto i cittadini possono cambiarlo. Il governo-Prodi è “caduto” in Parlamento davanti agli occhi di tutti i cittadini: così dev’essere”.

Ma lei come si spiega di non essere mai arrivato a palazzo Chigi, pur avendo avuto un altissimo consenso popolare all’epoca della magia referendaria?

“Con l’elezione diretta, se ci fosse stata, probabilmente sarei arrivato. Ma il secondo passo necessario nella situazione di allora e di oggi era la costituzione di un partito per poter aspirare al governo. E non vi riuscì. Chi fa la rivoluzione, è difficile che finisca a palazzo Chigi. Ci riuscì Mussolini, ma non mi pare un bel precedente… Nella nostra epoca solo a Gorbaciov riuscì di distruggere il sistema comunista -e tutti gli siamo grati-, ma poi sparì. La rivoluzione, si sa, divora i suoi figli”.

Di lei si scrisse: Mario Segni ha fatto tredici, ma ha perso la schedina. Si riconosce nell’affettuosa ma pungente ironia?

“Stupidaggini. Noi abbiamo effettivamente fatto tredici col referendum. Il rammarico è che perdemmo la seconda e conseguente lotteria, quella del fare un partito. La rivoluzione incompiuta”.

Col senno del poi, meglio la prima o la seconda Repubblica? 

“Meglio la terza, ancora da venire. La prima Repubblica ebbe una fase iniziale e lunga bellissima, e una successiva che fu invece vergognosa. Si può rimpiangere De Gasperi, non però gli anni Ottanta. La seconda Repubblica è in cambiamento verso il futuro”

S’è mai pentito, professor Segni, d’aver scelto la politica?

“No. Le cose migliori della vita le ho fatte in politica”.

Invece dell’anti-politica, alla Grillo parlante, che pensa?

“Grillo dice tante cose giuste, però non basta criticare. Ma la colpa non è sua, che fa il comico, il bravo comico. La colpa è di chi scambia l’artista per statista. Se trasformiamo il comico in capo del governo…”.

E se una delle sue tre e ormai grandi figlie le dicesse: papà, voglio fare politica?

“Sarei contento. Ma ripeterei le parole di mio padre: prima fai un’altra cosa”.

Mario o Mariotto all’anagrafe?

“Mariotto. Mariotto Segni era un messo di Lorenzo il Magnifico, che amministrava per conto del signore varie contrade, fondando anche parecchi castelli. Prima della mia nascita, mio padre vide la targa che ne ricordava la storia. Se ne innamorò e mi mise il nome. Ho così un ascendente tra gli uomini di fiducia di Lorenzo de’ Medici…”.

“L’Italia è cambiata, ora bisogna cambiare gli italiani”. Si prenderebbe la paternità della frase?

“La ritengo, purtroppo, molto attuale. Ancor prima delle regole, la prospettiva è quella di evitare l’imbarbarimento morale e culturale che attraversa la società. Gli italiani sono alle prese con problemi molto seri. Ma sono anche capaci di grandi e straordinari recuperi”.

Dopo tanti referendum, bipolarismi, leggi elettorali, riforme fatte e soprattutto annunciate, ha capito dove vada l’Italia?

“La speranza è che riprenda a guidare l’Europa. L’Europa è nata a Roma. La strada giusta è quella”.

Pubblicato il 3 agosto 2008 sulla Gazzetta di Parma