Andrea Monorchio: l’Italia è il quinto produttore di ricchezza al mondo. Altro che declino

Andrea Monorchio è nato a Reggio Calabria e ha settant’anni. Economista e professore ordinario di Contabilità di Stato all’Università di Siena -ma docente anche alla Luiss di Roma-, Monorchio è stato il diciassettesimo e storico Ragioniere generale dello Stato: dal 1989 al 2002 ininterrottamente. Gli anni della scelta dell’euro. Autore di saggi economici, attualmente presiede la Consap, concessionaria dei servizi assicurativi pubblici. E’ uno dei “grandi commissari” dello Stato, dove ha trascorso più di quarant’anni.  

 

L’esercito degli economisti che ogni giorno discetta sulla crisi (e che il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha paragonato ai maghi con ironia), non aveva minimamente previsto l’arrivo di questa crisi. Lei come lo spiega?

“L’economia appartiene alle scienze sociali e spesso anche ai comportamenti. Comportamenti delle persone, delle imprese, dei governi. Mentre alcuni comportamenti sono prevedibili, altri non lo sono”.

Vuol dire che un economista dovrebbe essere pure antropologo?

“Più che antropologo, dovrebbe essere uno studioso in grado di intuire, di comprendere l’azione degli uomini. La previsione di un economista si basa su uno schema, un algoritmo che affonda le radici anche nel tempo. Ma poi a un certo punto questo algoritmo non funziona più, e perciò le previsioni ballano. Non funziona, perché è difficile immaginare i comportamenti. A ciò s’aggiunga il fatto che l’economia è globale: uno starnuto in Giappone si ripercuote sull’Argentina, sul Sudafrica, sull’Europa. Penso che Tremonti, persona colta e intelligente, abbia avuto ragione anche in quest’occasione”.

Il momento peggiore della recessione è alle nostre spalle o dobbiamo ancora temerlo?

“Sulla base non delle previsioni, ma degli indicatori dovremmo aver già toccato il fondo, avendo cominciato la lenta ripresa. Un indice significativo di questo è dato dalla Borsa, che inizia a risalire ai livelli non raggiunti dal gennaio del 2009 quando, peraltro, la crisi era ormai avanzata. Io credo che per tutto quest’anno e un pezzo del 2010 soffriremo ancora un po’”.

Ma in senso pratico questa crisi che effetto ha avuto e sta avendo sull’Italia?

“Una certa quantità di persone -non altissima, però numerosa- è in cassa integrazione, avendo perso il posto di lavoro. Da diversi anni non eravamo più abituati a un fenomeno del genere”.

Se la passano male, ma non malissimo, visto che hanno potuto beneficiare -ed è giusto così- di un paracadute sociale. O no?

“Indubbiamente. Ma poi c’è stata la difficoltà del credito per le imprese. Molte aziende hanno patito, altre sono state costrette a chiudere”.

Può spiegare, allora, perché l’Italia soffra meno della Germania, della Gran Bretagna, della Francia e della Spagna l’effetto della tempesta economica americana? (se l’assunto è vero: lo è?)

“Quando Berlusconi e Tremonti dicono che la situazione italiana è diversa e migliore rispetto a quella degli altri Paesi citati, dicono una cosa corretta. Questo dipende dalla circostanza che il sistema bancario italiano, e non solo, s’è rivelato molto più solido di quello dei Paesi a noi concorrenti, e che magari disprezzavano il nostro modello. Il merito principale è della Banca d’Italia, che ha vigilato con assiduità sulla solidità patrimoniale delle banche. Anche l’operazione svolta dall’allora governatore Antonio Fazio per accorpare grandi istituti di credito -come Banca Intesa o Unicredit- è stata importante. La storia economica del nostro Paese sicuramente ricorderà questo passaggio. Sottolineo, inoltre, che il governo italiano è stato l’unico governo -forse assieme a quello spagnolo- a non aver tirato fuori un solo euro per “salvare” alcuna banca italiana. Il cosiddetto Tremonti-bond è stato ideato soltanto per dare maggiore consistenza al capitale delle banche. Per consentire una serie di iniziative a sostegno del sistema economico. E poi c’è una cosa che viene incredibilmente sottovalutata…”.

Sempre nell’ambito bancario?

“No, mi riferisco a un dato fondamentale per l’economia di un Paese. L’Italia ha complessivamente un debito che è inferiore a quello di qualsiasi altro Paese, eccezion fatta per la Germania. Perché il debito di una nazione abbraccia tre capitoli: debito pubblico, debito delle famiglie, debito delle imprese. Nel primo capitolo, si sa, siamo a un livello molto elevato: il 106 per cento del pil, cioè una volta e sei la ricchezza prodotta. E questo ci danneggia, perché purtroppo il Trattato di Maastricht ha fatto riferimento non al complesso del debito, ma soltanto a quello pubblico. Ma il debito delle famiglie italiane rispetto al pil, un debito che è del 34 per cento, è forse il più basso al mondo. Anche il debito delle imprese è modesto, fra il 60 e il 70 per cento. Per quale motivo? Perché il sistema economico è caratterizzato dalla piccola e media impresa. Abbiamo pochi colossi in grado di indebitarsi per cifre imponenti. Il risultato di tutto ciò è che, sommando i tre debiti pubblico, familiare e imprenditoriale, arriviamo a circa il 200 per cento. Che è inferiore al debito complessivo degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, dell’Olanda. Eppure, non dimentico con quale disprezzo il ministro olandese ci guardava nelle riunioni a Bruxelles sul debito pubblico. Ma il suo Paese stava peggio del nostro!”.

Nelle voci di spesa qual è il settore che conta, negativamente, di più?

“Finora e pur con tutte le critiche che si possono fare, il ministero dell’Economia ha agito con grande determinazione sul contenimento della spesa. E ha agito su tutti i comparti. Però questo non basta. Il ministro Tremonti sa bene che non esistono le condizioni politiche per intervenire su due comparti di spesa su cui bisogna invece intervenire, se vogliamo veramente risanare: la previdenza e la sanità. Ai miei studenti universitari io amo illustrare la tabella che ho costruito sulla base dei conti ufficiali delle pubbliche amministrazioni…”.

La illustri anche qui…

“Sono i conti che conoscono l’Osce, Bruxelles, il Fondo monetario internazionale e così via. Bene. Fatto 100 per le spese sanitarie nel 2000, nel 2008 siamo arrivati a 171, cioè a una crescita del 71 per cento. Fatto 100 per le spese previdenziali e assistenziali nel 2000, otto anni dopo siamo a 139, ossia un aumento del 39 per cento. Nello stesso arco temporale il pil cresceva del 28 per cento. In termini assoluti questa spesa ammonta a circa 374 miliardi. L’incremento è nell’ordine del 4,5/5 per cento ogni anno. Dunque, qualsiasi sforzo compia il ministero dell’Economia per cercare di frenare la spesa crescente di anno in anno, è insufficiente”.

Che fare, allora?

“Agire sulla previdenza e sulla sanità. Le pensioni sono basse, non si può certo incidere su quelle. Ma, come ha detto il governatore, Mario Draghi, la prima cosa da fare è aumentare l’età pensionabile. Noi siamo un Paese in cui, grazie a Dio, la gente vive a lungo e vive bene. Non è possibile pagare pensioni dai 55 agli 85 anni. La riforma dovrebbe portare ai 65 anni. Ma molto probabilmente dovremo alzare anche quella soglia. Unico limite sarà l’escludere chi fa lavori usuranti. Però distinguendo. Non si può lavorare alla catena di montaggio a 65 anni. Ma a 65 anni si può ancora fare i baristi”.

Come intervenire sulla sanità?

“Una volta proposi, in un dibattito pubblico, una sorta di applicazione del principio della capacità contributiva. Mi spiego. Una famiglia che ha un reddito di trentamila euro all’anno, deve poter avere diritto a tutto. Per un’altra, che invece l’ha di quarantamila, l’assistenza ospedaliera sia garantita, ma tutto il resto lo si paghi. E così via. Prevedendo anche l’avanzamento dell’età. Per cui agli anziani si assicurino, a parità di reddito con gli adulti, maggiori prestazioni. E’ una proposta che si può attuare con gradualità e con saggezza. Ha un solo inconveniente: si scontra con l’evasione fiscale altissima nel nostro Paese”.

Perché non si riesce a colpirla e a sradicarla?

“Posso rispondere con franchezza? Non lo so. Davvero non lo so. Io, per esempio, andrei nei grandi alberghi per vedere chi ha soggiornato a lungo, e confronterei il suo reddito con la vacanza trascorsa da Vip. Indagherei sulle barche, sulle auto di lusso. E’ un lavoro complesso, ma si può fare. Non è possibile che io, dipendente dello Stato, figuri addirittura tra i primi contribuenti italiani! Non è possibile che ci siano meno di duecentomila cittadini a dichiarare un reddito superiore a centomila euro! Anche le storie dei quattrini portati all’estero…La lotta all’evasione è ormai prioritaria. Perché la pressione fiscale è troppo alta, certo. Ma si può abbassarla, solamente se la gente paga le tasse”.

Può chiarire qual è il posto dell’Italia nella classifica dei Grandi Paesi?

“Sulla base del prodotto interno lordo, ed escludendo Cina e India, ossia nazioni non demograficamente comparabili, noi siamo sesti dopo Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna. Ma attenzione. Nonostante i conti nazionali tengano conto di una certa quantità di produzione in nero, essa non è mai quella stimata prendendo in considerazione l’evasione fiscale. Di fatto, quindi, siamo quinti. L’Italia è il quinto produttore di ricchezza al mondo. L’Italia è un grande Paese, anche se a volte tendiamo a dimenticarcelo”.

Ma i governi ascoltano le lamentele dei Ragionieri generali dello Stato?

“Noi abbiamo un compito veramente difficile. A me dicono spesso “ma sai che sei ringiovanito?”. Eppure, non faccio né cure né lifting. Semplicemente non faccio più il Ragioniere generale dello Stato, che vive in una tribolazione continua e quotidiana. Perché è il primo italiano non solo a rendersi conto, fin dal mattino presto, dei dati del Paese, ma pure delle difficoltà d’operare. E’ il primo a capire la necessità di contenere la spesa pubblica”.

E se non la si contiene?

“Aumenta il debito”.

E se aumenta il debito?

“Abbiamo anche obblighi comunitari. Partecipiamo alla moneta unica. Non possiamo rischiare che ci dicano “arrivederci, Italia”.

L’euro-moneta, gioie e dolori, o no?

“La gente ripete: l’euro ci ha rovinati. Ma non è così. L’errore, il vero errore fu al momento del passaggio della vecchia lira alla nuova moneta. Bisognava imporre il doppio prezzo bene in vista, in euro e in lire. Quindi sorvegliare il cambiamento con grande attenzione”.

Non è che l’errore fu anche quello di non impuntarsi, al momento della trattativa, per convertire meglio la lira in euro? Non dico strappare un rapporto da uno a uno, ma non il suo doppio, cioè quasi due milioni di lire per avere, appena, mille euro… 

“Mi creda, anche perché all’epoca, come può immaginare, pure io ho collaborato, nella mia funzione, all’ingresso dell’Italia nell’euro. Il cambio ottenuto fu il meglio che in quelle date condizioni potesse essere ottenuto. Se oggi non avessimo la moneta unica, saremmo sprofondati nel Mediterraneo. I tassi d’interesse sarebbero andati alle stelle. L’euro è uno scudo, lo scudo di un’economia forte. Un’economia che poggia sulla Germania, sulla Francia, sulla Gran Bretagna, sull’Italia”.

L’Italia è un Paese in declino?

“No. Proprio no. Noi dobbiamo semplicemente ritrovare la via della crescita reale dell’economia. Dobbiamo eliminare le cause strutturali che ci impediscono di volare. Pensi che soltanto con l’esecuzione di nuove infrastrutture -nuove nel senso di ammodernarle o di introdurle- potremmo crescere di un punto, un punto e mezzo all’anno. Ma per infrastrutture io non alludo solo alla rete di comunicazione, ferrovie, Tav, autostrade. Infrastrutture sono anche bruciatori, termo-valorizzatori, porti marittimi e turistici. E’ stato calcolato che, se l’Italia avesse una serie di attrezzature nei porti, le merci che viaggiano dall’Oriente e dalla Cina risparmierebbero sei giorni passando dal Mediterraneo, rispetto a Rotterdam e ad Amburgo. Ecco perché è fondamentale il tratto di alta velocità Genova-Rotterdam”.

Da calabrese: ponte sullo Stretto sì o no?

“Sì, ma non subito. Prima bisogna fare altre cose. Non dico l’alta velocità fra Napoli e Reggio Calabria o Palermo. Però qualcosa del genere. Altrimenti il ponte rimane privo dei canali d’afflusso”.

Le manca la scrivania, Ragioniere?

“Mi sento molto sollevato da quella grande responsabilità. E al mio collega e carissimo amico, l’attuale Mario Canzio, do tutta la mia solidarietà per un impegno che è durissimo. Ma adesso ho altre scrivanie…”.

Ma di “quella” che cosa le manca?

“L’adrenalina. L’adrenalina che scorre veloce”.

Pubblicato il 30 agosto 2009 sulla Gazzetta di Parma