L’importanza di chiamarsi Maradona (e di saper segnare perfino con la mano)

La prima volta che un giornale pubblicò il suo nome, lo sbagliò: “Caradona”, scrisse, invece che Maradona.

La prima volta che è andato a giocare all’estero, in Uruguay, non lo fecero entrare in campo: aveva dimenticato i documenti a casa.

La prima volta che il mondo s’accorse del campione, si meravigliò: era mancino in uno sport dominato dai destri. Come gli inglesi, che guidano l’automobile al rovescio dell’umanità. Ma lui era argentino.

Coi piedi ha fatto danzare il pallone. E tutti crollavano al ritmo del suo tango. Ma il gol più irresistibile l’ha segnato con la mano. E proprio agli inglesi. E proprio dopo la guerra delle Malvine.

Diego Armando Maradona ha portato il numero 10 su tante (ma non troppe) magliette, in patria e fuori. Napoli non l’ha dimenticato e lui non ha dimenticato Napoli, prima di ritirarsi dai campi di calcio, a trentasette anni, per disintossicarsi.

Nella vita è finito in fuorigioco il ragazzino cresciuto a Villa Fiorito, periferia di Buenos Aires, dove non girava ricca droga ma solo sana povertà, povero Diego.

(Tratto dal mio libro “Se il mondo finisce qui”, Ideazione Editrice, Roma, 2004)