Curzio Malaparte e quel rivoluzionario piccolo piccolo di Lenin

Rivoluzione d’ottobre, primo giorno della conquista del potere, San Pietroburgo. Wladimir Ilitch Uljanov, per tutti Lenin, s’è chiuso in una stanza dell’Istituto Smolny, il quartier generale dei bolscevichi. Così Curzio Malaparte racconta dell’uomo in quelle drammatiche ore del 1917 che hanno cambiato il mondo: “Dal fondo del suo gabinetto di lavoro, egli non ode il clamore dei massacri. L’aria sorridente, gli occhi canzonatori, egli abbozza dei decreti, redige degli articoli, dei proclami, scrive delle lettere, griffonne (dal francese: scarabocchia ndr) dei biglietti. Il suo odio contro la Santa Russia, contro la società borghese, contro i nemici del popolo, non è feroce. La parola distruggere non ha per lui ciò che si potrebbe chiamare un cattivo significato. L’odio non è in lui un sentimento: non è nemmeno un calcolo. E’ un’idea. Il suo odio è teorico, astratto, direi anche disinteressato. Quel mostro ha il senso dell’humour. Le parole più terribili egli le pronunzia sorridendo. Non bisogna vedere del cinismo dove non vi è che della bonhomie”.

“Il buonuomo Lenin”, non poteva intitolarsi diversamente il libro appena ripubblicato da Adelphi (a cura di Mariarosa Bricchi) dopo la prima volta della versione uscita in traduzione francese nel 1931 e la seconda italiana -“Lenin buonanima”- apparsa per Valsecchi nel 1962, ossia cinque anni dopo la morte dell’autore. Con aneddoti, testimonianze e documenti “tutti di fonte bolscevica” annodati con l’approccio del romanziere e scolpiti con la penna del giornalista brillante e irrequieto quale sempre fu, Malaparte sostiene una tesi suggestiva per i suoi tempi non meno che per i nostri: quel rivoluzionario di Lenin, in realtà era un piccolo borghese. Un mediocre e fanatico funzionario, tutta teoria e niente azione. Un opportunista di successo, la cui aurea lui stesso si creò non per valore proprio, ma grazie al sacrificio del fratello maggiore Alessandro, accusato di complotto contro lo zar e impiccato nel 1887. “Il fratello dell’impiccato” è il primo capitolo a Lenin dedicato.

Con l’arma non violenta, ma invincibile dell’ironia, Malaparte spiega la differenza fra l’avere carisma e l’io sono io di Lenin, “per il quale la sola storia che conta è quella che si compie in lui stesso”.  “Nell’esilio a Monaco, a Londra, a Parigi, a Ginevra -ricorda l’autore- “Lenin non cerca che la sua sicurezza personale, il clima tiepido e pacifico dell’ordine europeo”. Quando porta una delegazione di compagni sulla tomba di Marx, dimentica il cappello sulla lapide. Quando alcuni lavoratori intonano una romanza in suo onore, lui si alza di scatto e li fa smettere: “Scusatemi, io non posso ascoltare la musica. La musica mi rende buono”. Mentre gli operai russi si battono nelle strade, Lenin “scrive un articolo”, punge Malaparte. E poi: “Quando egli firma un decreto, la sua coscienza è tranquilla. Egli non saprebbe, come Macbeth, aver orrore della sua mano”. Impietoso il ritratto dell’ora X: “Lenin saluta la vittoria della rivoluzione in parrucca. E’ travestito da operaio, un ricciolo gli pende sulla fronte: è ridicolo. Perché siete ancora truccato a quel modo?, dice Trotzki a Lenin. I vincitori non si nascondono”. Un comunista in parrucca e in pantofole: il classico europeo. L’opposto della plaudente e prevalente narrazione di lui come di un romantico guerrigliero col pizzetto, venuto quasi dalla fine dell’altro mondo per liberare i proletari. Un uomo “di una crudeltà platonica”, che lavora “per ore intere con un gatto sulla spalla”. Quel “dittatore rosso”, tutto casa, Komintern e tazze di tè.

Pubblicato su Il Messaggero di Roma