La mia fabbrica. Parla Federica Guidi che guida i giovani imprenditori in Italia

Federica Guidi è presidente nazionale dei giovani imprenditori di Confindustria. Nata a Modena, trentanove anni e laurea in giurisprudenza, è direttore generale della Ducati energia spa. Prima di arrivare al vertice dei giovani imprenditori, Federica Guidi era stata vicepresidente nazionale e, in precedenza, presidente regionale dell’Emilia-Romagna, e vice di Confindustria nella stessa regione.

 

Più giovani leoni o bamboccioni, chi sono gli italiani che lei rappresenta?

“Bamboccioni ne conosco pochi. Non mi sono mai riconosciuta in quella definizione. Non so dire se siamo giovani leoni. Siamo gente impegnata con serietà in tante aziende. E con molta voglia di continuare a fare impresa in Italia”.

Ma quanti sono questi giovani, e come fanno a farsi valere in un Paese e in un Continente che invecchiano precocemente?

“Al nostro movimento, che chiamiamo proprio “movimento”, sono associati dodicimila e cinquecento persone. Persone che di norma lavorano dieci/dodici ore in aziende che cercano di portare in giro per il mondo. In Italia principio della meritocrazia non esiste. Da qui la prima e più rilevante difficoltà: non avere un ascensore sociale che consenta ai migliori, se si danno da fare,  di migliorare le loro prospettive sociali e retributive. Se il Paese non stimola né aiuta i bravi a emergere, i bravi se ne vanno”.

Ma allora come si diventa giovani imprenditori: per merito sociale -che è molto scarso, come lei dice- o per tradizione familiare, che è invece preponderante, come aggiungo io?

“Occorre il mix delle due cose. Io ricordo che al movimento fui iscritta d’ufficio da mio padre. Ma non frequentavo, perché ero concentrata sul percorso degli studi. Poi, anche convinta da lui, fui invitata mettere a disposizione un po’ del mio tempo per partecipare alle molte iniziative. E la cosa si trasformò in malattia. Ancora oggi molta gente ormai impegnata nei senior, compresa la Mercegaglia, resta “giovane per sempre”. Perché scatta, come dicevo, il virus. Il virus di un ambiente competitivo e selettivo, che “pretende”. Ma dà anche tantissimo, soprattutto a livello umano. Metti in rete le tue esperienze e cresci. Un’esperienza autentica, e non certo per “fare business”.

Non è che lei, da piccola, diceva “da grande farò l’imprenditrice”: o sì?

“Voglio lavorare in fabbrica”, ripetevo già a tre, quattro anni, secondo i ricordi di mia madre. Ero figlia unica, e si vede che per osmosi dai racconti di mio padre dicevo così. Ma in realtà a casa mia non mi hanno spinto, semmai mio padre mi ha frenato. Un po’ perché una donna avrebbe trovato qualche difficoltà in più, un po’ perché mi consigliava a fare “quello che ti piace”. Papà ha tentato di mettermi paura, più che desiderio. Dopo laurea, il master, e un paio d’anni fuori dall’azienda, viaggiando parecchio perché lavoravo in una cosiddetta merchant bank, entrai in azienda. E ora faccio il mestiere che più mi piace al mondo”.

Oggi che significa intraprendere rispetto al modello classico del lavoro dipendente?

“Intanto avere un ruolo operativo e non istituzionale. L’idea di poter “lavorare” la materia prima che entra, si trasforma, diventa un prodotto che richiede un contatto continuo con clienti e fornitori, che fa viaggiare, che ti rende orgogliosa della tua azienda. Vivacità e dinamismo”.

Quali sono i maggiori ostacoli per un giovane non raccomandato né figlio di nessuno che voglia fare impresa?

“Prima cosa il reperire capitale iniziale senza poter offrire garanzie reali. La burocrazia, i costi, il tempo che si perde e che scoraggia e spaventa. E’ un complicato e lungo momento finanziario, che distoglie la mente dalla volontà di liberare subito le energie, come si vorrebbe”.

Confindustria è guidata da due donne, giovani, belle e determinate: Emma Mercegaglia per gli adulti e lei per i non adulti. Siamo alla svolta o alla sapiente trovata dei soliti maschietti, detentori della vera forza economica e “politica” dell’impresa?

“Né l’una cosa né l’altra. E’ solo il segno dei tempi. Il settore industriale ha tante donne impegnate nell’associazionismo. Certo, rispetto agli uomini le posizione di vertici sono ancora inferiori. Ma le Università sono piene di donne che presto entreranno nel mondo del lavoro. Il cambiamento è in atto ormai da qualche anno. Il processo s’è innescato, inarrestabile. Confindistra è stata innovativa, e la nostra –mia e di Emma- è una felice coincidenza. Ma io non amo le questioni di genere, preferisco parlare di competenze. Certo, se penso a quel che succede in altri ambiti, se penso alla politica…”.

Per lo sviluppo di un Paese è meglio avere poche ma buone multinazionali o tante piccole e medie industrie?

“Difficile dare una ricetta. Ci vogliono le due dimensioni, la multi e la media. Ma io non sono per i giganti, anche se le aziende troppo piccole non riescono più a stare sul mercato. E poi gli investimenti stranieri purtroppo non arrivano, e ciò penalizza la ricerca, lo sviluppo e la tecnologia soprattutto delle medie e piccole imprese. Diciamo che la catena di comando può essere corta, ma va fondata sulla managerialità e sulla professionalità. L’imprenditore che fa un po’ tutto da sé oggi non è più un modello vincente”.

Che cos’è per lei il capitalismo?

“Se è quello sano, è un eccezionale strumento per fare buona selezione. L’impresa meritevole va avanti, le altre no. Il capitalismo è stimolo e sviluppo.

E il sindacalismo?

“Una componente importante del sistema, l’altra faccia, la controparte istituzionale”.

Evitiamo ora i piagnistei, tipo “la crisi che incombe”, “il carovita”, l’”inflazione” e tutte le cose che sappiamo. Dica invece come tornare a rivedere le stelle.

“Domanda da un milione di dollari. E’ mancata, finora, una politica di investimento. Il carico fiscale che, appunto, tutti conosciamo fin troppo, è diventato un fardello sulle spalle. Non parliamo poi del rapporto euro- dollaro né della Banca centrale europea che alza, anziché abbassare, i tassi. Tutto ciò mette fuori mercato chi vende all’estero, e colpisce proprio chi cerca di competere”.

Ma se potesse ottenere dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti un provvedimento, uno solo, quale sarebbe?

“In generale la sua proposta di finanziaria è interessante. Ma io fatico a dare un’indicazione. Direi che il tema delle tasse, la questione dell’imposizione fiscale e della tassazione sul lavoro siano ormai centrali”.

E se potesse chiedere all’opposizione una cosa, una cosa sola sulla politica economica, quale sarebbe?

“Per il bene del Paese un’opposizione dovrebbe trovare un buon compromesso con la maggioranza per il rilancio della crescita. L’Italia non può restare allo zero virgola qualcosa. Le nazioni cosiddette emergenti -che poi già sono emerse- vantano ben altre armi e possibilità”.

Qualcuno dei suoi giovani rampanti metterà una lira per la nuova Alitalia?

“Non lo so dire. Io ho un’azienda in India e ho usato Alitalia negli ultimi anni. So quant’importante sia avere una compagnia di bandiera. Ma serve anche che questa compagnia sia efficace ed efficiente. Pensi che adesso le rotte che Alitalia ha purtroppo cancellato da e verso l’India, vengono fatte da compagnie indiane che un tempo avevano solamente voli interni”.

Ma gli industriali pensano solo a far soldi o investono anche qualche spicciolo per la ricerca?

“Vado a naso, ma ognuno di noi spende un sacco soldi in investimenti e in ricerca. Io spendo il 5 per cento del mio fatturato. E non sono affatto un’eccezione. L’innovazione è fondamentale. Certo, in alcuni settori -tipo la plastica- può essere più difficile che in altri. Ma qui manca la ricerca di base. Sono le grandi aziende che dovrebbero investire molto di più in ricerca. Le ricadute positive sarebbero notevoli.

E per formare i dirigenti al meglio in Italia e nel mondo, investono o non investono le nostre aziende?

“Su questo siamo un po’ carenti. Siamo più al “fai da te”, magari con le aziende di medie dimensioni che hanno fatto passi in avanti. Ma il passaggio è in buona parte già avvenuto. Dal familismo di un tempo siamo approdati al modello familiare che scommette sulle capacità manageriali, che esige competenze, che valorizza collaboratori e produzioni in grado di spostarsi all’estero, che agisce con strumenti finanziari sempre più evoluti”.

Ma alle riunioni con i suoi colleghi europei lei si presenta con l’orgoglio di una grande nazione, com’è l’Italia, o interpreta la “sindrome del declino” che tanto affligge i politici e gli intellettuali frustrati? 

“Io sono molto ottimista, l’unica sindrome di cui soffro è quella della preoccupazione. Se pensassi ai declini, avrei già cambiato mestiere. Piangersi addosso mai”.

Possiamo concludere che il catastrofismo non abiti qui?

“I miei amici e colleghi non sono catastrofisti. Siamo qui presenti con convinzione e non intendiamo abbandonare i nostri territori”.

Nel mondo dov’è che i giovani imprenditori italiani potrebbero e dovrebbero osare di più?

“In Asia e in America latina. Dico due Paesi: Vietnam e Brasile. Forse anche e ancora l’Argentina. Sarebbe opportuno operare con un sistema-Paese come ha fatto la Germania in Cina. Sono favorevolissima a elaborare “piani-investimento sul futuro”, se vogliamo battezzarli così”.

E in quali settori?

“I mercati stanno esplodendo, e noi siamo tradizionalmente forti in moltissimi campi. Ma oggi non si riesce a vendere se non si va anche a produrre in quelle aree, se non si conoscono bene quei luoghi del pianeta. Ecco perché le grandi aziende si internazionalizzano e delocalizzano”.

Per un giovane intraprendere oggi è un rischio o molto meno di ieri? 

“E’ un rischio, non se meglio o peggio di prima. Forse è più complicato, perché le possibilità sono maggiori, ma la rapidità delle informazioni e degli accadimenti fa sì che queste grandi opportunità nascondano anche delle grandi insidie. Ma io consiglierei a chiunque di provarci, mettendolo naturalmente in guardia. Senza essere falsamente buonisti, e senza scoraggiare chi ha voglia di cimentarsi”.

Pubblicato il 13 luglio 2008 sulla Gazzetta di Parma