La cucina italiana è la più universale di tutte. E quanto sono uguali New York e Venezia: dal suo locale parla Arrigo Cipriani

Arrigo Cipriani è nato a Verona nel 1932, esattamente un anno dopo l’avvio del suo “Harry’s Bar” di Venezia, che ormai dirige da 55 anni: un marchio storico del “made in Italy” che ha ispirato letteratura e cinematografia, e che è stato classificato come “bene protetto” dal ministero dei Beni culturali. E’ sposato e padre di tre figli, uno dei quali -Giuseppe- guida le quattordici aziende dei Cipriani che si trovano per la maggior negli Stati Uniti. Arrigo è anche autore di libri di racconti e di ricette legati all’attività dell’alta ristorazione nel mondo.   

 

In un anno -è stato calcolato- più o meno un miliardo di persone nel mondo entra almeno una volta in un ristorante italiano. A parte il cibo che cosa cercano, o cercano solo e voluttuosamente il cibo?

“In realtà il vero ristorante italiano è la trattoria. Le componenti che fanno, diciamo, da richiamo, sono l’accoglienza, il cibo che si può ripetere e in generale la mancanza di imposizioni così frequenti nei ristoranti d’Oltralpe. Credo che queste siano le cose più importanti che i clienti pensano e sperano di trovare sempre in un ristorante italiano”.

Ma oggi che cosa distingue la cucina italiana, al punto da renderla tanto popolare?

“La cucina italiana -e questo lo dico senza alcun campanilismo-, ha gusti e sapori più vicini al dna universale di qualunque altra cucina al mondo. Se vediamo che ogni neonato rifiuta il limone oppure il sale, ma in compenso ama il dolce, ne deduciamo che il gusto del dolce sia, appunto, universale. La cucina italiana è proprio quella che più si avvicina a questo gusto”.

Il suo nome ha fatto il giro del mondo, ma è partito da Venezia col “Harry’s Bar”. Quanto deve a Venezia il Cipriani internazionale?    

“Nel 2001, ossia cinque anni fa, l’Harry’s Bar é stato dichiarato un bene protetto dal Ministero dei Beni Culturali; unico ristorante a cui sia stato riservato questo privilegio nel corso del ventesimo secolo. Il riconoscimento è stato conferito per il ruolo di testimonianza che il locale ha avuto nella vita e negli avvenimenti di Venezia durante quel lungo periodo. Dietro questa gratificazione c’erano due verità in qualche modo legate fra loro. La prima è che a Venezia sono venuti tantissimi visitatori importanti o famosi, e da tutti i Paesi del globo. La seconda verità è che molti di loro sono diventati in gran parte nostri clienti”.

Da tempo lei va avanti e indietro fra New York e Venezia. In che cosa si somigliano due città tanto differenti?

“Sembrerà strano, ma si assomigliano in tutto. C’è l’acqua in tutte e due, ci sono i quartieri nei quali si cammina e si incontra la stessa gente alle stesse ore. Ci sono le asimmetrie verticali e orizzontali che le fanno connotare come un essere umano, il quale è sempre asimmetrico. Un giorno un noto pittore veneziano che ancora non conosceva New York, fu spedito con la forza dai suoi amici Oltreoceano: a settant’anni suonati gli fecero passare di colpo la paura di volare! L’artista rimase due mesi nella Grande Mela. Al ritorno dalla per lui nuova e lunga esperienza, disse agli amici che l’aspettavano: “La differenza rispetto a Venezia? A New York i palazzi sono più alti e le calli più larghe, ma le due città sono la stessa cosa”. Io la penso esattamente come lui”.

E in che cosa si sente americano, un italiano di Venezia?  

“Anche la gente è la stessa. O meglio, la gente è come erano i veneziani di una volta, prima che lo spopolamento di Venezia la facesse diventare una piccola città provinciale. Come si sa, nel corso della storia Venezia è stata il centro mondiale dei traffici e del commercio. Adesso lo è New York. Ma la nostra eredità in fondo sarebbe sempre lì: basterebbe saperla cogliere”.

Il noto logorio della vita moderna porta dritti a tavola o si va a tavola, al contrario, proprio per cancellarlo?

“Contro il logorio si beve Cynar, mi sembra. A tavola la gente reagisce sempre a seconda dei tempi e delle circostanze. In epoche di opulenza riscopre il cibo povero, la misura nel condimento, la dieta, una certa tendenza comunque alla rinuncia. Invece in epoca di crisi tutti si buttano sui piatti elaborati, e sui dolci. La cucina, voglio dire, è sempre un rifugio. A volte ci si castiga, altre ci si premia”.

Suo figlio, che è figlio d’arte, ha scelto l’America per lavoro. Perché solo quella del Nord e non anche quella del Sud? 

“Giuseppe non ha scelto solo l’America del Nord, perché in Sud America avevamo due ristoranti a Buenos Aires. Ma in piena crisi economica come quella terribile che scoppiò agli inizi del Duemila, era difficile continuare il lavoro in Argentina. Mi sembra che adesso potrebbe essere di turno il Brasile, dove tra l’altro abbiamo una vastissima clientela”.

Ma la grande ristorazione che può fare, in concreto, per alleviare le aree più disagiate del pianeta (per non dire di quelle addirittura affamate)?   

“La grande ristorazione ha costi purtroppo elevati per mantenere la qualità nel tempo. E nelle zone disagiate o affamate del mondo c’è ovviamente bisogno di una ristorazione collettiva che riesca a soddisfare innanzitutto i bisogni primari delle popolazioni colpite”.

Chi non conosce la storia dello “Harry’s”, si chiederebbe e chiederebbe: chi è Harry?    

“Il vero Harry è stato mio padre Giuseppe, che lo ha proprio inventato. Ma la storia è questa. Harry Pickering era un giovane americano. Il quale, dopo essere stato finanziato da mio padre per potersi pagare il conto dell’albergo e tornare a casa sua a Boston, ricambiò l’aiuto nel modo seguente: al ritorno a Venezia, Pickering decise, per restituire il denaro, anche di mettere il capitale per creare il locale. Il nome, pertanto, lo dette lui”.

Chi erano i frequentatori più singolari?

“Sempre lo sono stati e lo sono i nostri clienti. Cioè quelli che, gente comune o aristocratica, oppure artisti o scrittori o attori o magari persone semplicemente curiose, hanno deciso di tornare a frequentarci, perché ne erano rimasti colpiti e, direi, affascinati”.

E quelli più antipatici?   

“Quelli antipatici facciamo in modo che non tornino…”.

Ma lei scelse quest’attività per convinzione o per costrizione (ormai può svelarlo, se c’è qualcosa da svelare)?  

“Io mi sono laureato in giurisprudenza. Ma dopo il primo esame, esame in cui meritai un misero 19, mio padre mi prese da parte e mi mise subito dietro la cassa: “Non diventerai mai un grande avvocato”, furono le sue parole. O meglio, fu la sua sentenza”.

Qualche grande amore nato (o finito) col “Bellini” in mano?   

“Più nati che finiti. Sa, il Bellini aiuta, aiuta molto. Meglio ancora se i Bellini sono due o tre…”.

C’è un aperitivo o un piatto che non è riuscito a fare -o ancora a fare-, nel modo in cui avrebbe ardentemente desiderato?    

“Se posso fare un paragone per rendere meglio l’idea, il ristorante assomiglia un po’ a un giornale: tutti i giorni ricomincia da zero, tutti i giorni si inizia comunque daccapo. Un giornale senza articoli sarebbe come un ristorante senza piatti. Ci vogliono, dunque, dei bravi giornalisti e dei bravi cuochi. Nel ristorante, in più, ci sono i camerieri. Un articolo bello si può scriverlo tutti i giorni. Un piatto quasi perfetto anche”.

Quali sono i racconti o i film che si sono scritti o girati con lo Harry’s sullo sfondo? 

“Ormai ho perso il conto. Naturalmente, lo scrittore più famoso che ne ha scritto e di cui s’è anche scritto è stato Hemingway. Però ricordo anche Truman Capote e tanti altri. Quanto ai film, citerei anche qui uno per tutti: “Eva”  di Joseph Losey, mi pare”.

Pure lei ha scritto parecchio, anche sui quotidiani, e non solamente a proposito della sua attività. Mica si sente un giornalista mancato, o sì?      

“Se è per questo, mi sento un avvocato mancato, e poi un corridore automobilista mancato, e un pugile mancato, e un clown mancato… Ma in fondo sono felicissimo della mia vita e tornerei a farla così come l’ho fatta. Senza cambiare nulla, nemmeno i miei sbagli”.

Anche oggi ci sono clienti che non si fanno dimenticare oppure i luoghi di ritrovo dal grande richiamo rendono sempre più anonima la grande clientela? 

“I clienti sono la vita del ristorante; non la sono certo le guide o i critici gastronomici. La nostra è un’ampia e numerosa famiglia, che da tempo ci segue dappertutto nel mondo. Anzi, le dirò una cosa: il fatto che il mondo sia diventato più piccolo, paradossalmente l’ha resa più affezionata e preziosa”.

E’ di rigore un suggerimento ai molti giovani che si buttano nella ristorazione in Italia e all’estero: che cosa devono aver soprattutto studiato, prima dell’avventura?

“Ai giovani suggerisco di leggere il più possibile, ma sopratutto di essere loro stessi sempre, in ogni circostanza e in ogni luogo del pianeta. Suggerisco anche di rifuggire dalle formule, di cercare la verità in se stessi e non nelle bibbie, di essere quindi semplici, e di far sentire il cliente la persona più importante che esista sulla Terra. Ma non voglio dare altri consigli pratici, perché mi sembrerebbe di essere un santone”.

E l’errore da evitare durante l’avventura?  

“Ah, non ho dubbi: copiare i francesi”.

Ma il “ritrovo” storico di domani sorgerà magari nella Cina prorompente, nel Giappone laborioso, nell’Australia delle speranze o Venezia se la sogneranno ancora a lungo?  

“Da quando siamo stati dichiarati bene protetto, all’Harry’s Bar non si può più toccare nulla. Nemmeno io posso! Lì resterò per i prossimi trent’anni. Dopo forse, chissà… D’altra parte lì, in ogni angolo del locale dal pavimento ai soffitti c’è ancora e sempre mio padre. Che è morto da venticinque anni, e che oggi ne avrebbe centosei…”.

Pubblicato il 27 agosto 2006 sulla Gazzetta di Parma