Carlo Jean: le missioni militari dell’Italia nel mondo sono un modello per la pace

Carlo Jean, generale di Corpo d’Armata, è nato a Mondovì (Cuneo) e ha settant’anni. Docente di Studi strategici presso la Luiss di Roma, presiede il Centro Studi di Geopolitica Economica ed è membro del Consiglio scientifico dell’Enciclopedia Treccani. E’ stato consigliere militare del presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, direttore del Centro Militare di Studi Strategici e presidente del Centro Alti Studi per la Difesa. Autore o curatore di numerosi saggi, dal ’97 al 2001 è stato rappresentante personale del presidente dell’Ocse (Organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico) per l’attuazione degli accordi di pace di Dayton. Ha ricevuto la medaglia Gandhi dell’Unesco per la sua attività volta a prevenire i conflitti in Medio Oriente e nei Balcani.

 

Medio Oriente, Iran, Afghanistan: da dove arriverà la crisi più insidiosa?

“Sarà ancora e soprattutto l’Iraq a tenerci col fiato sospeso. Molto dipenderà dai negoziati fra Stati Uniti, Iran, Iraq e gruppi di sunniti in America. Quanto al rischio del nucleare iraniano, credo che alla fine non se ne farà niente. Così come vedo una tendenza alla stabilizzazione in Medio Oriente, pur con dei possibili colpi di coda del terrorismo. E sempre che non falliscano i relativi negoziati”.

Ma lei che Iraq prevede dopo il ritiro dei soldati americani?

“Intanto, non sarà mai un ritiro completo. Vedo un Paese federato con forti autonomie dei gruppi sciiti, sunniti e curdi. Perché il problema non è tanto quello del bilanciamento fra le tre maggiori componenti dello Stato, come si crede; il problema è il caos che regna all’interno di ciascuna di queste comunità. Alla fine, a pagare lo scotto dell’accordo tra sunniti e sciiti saranno i curdi, che sono le vittime della Storia per antonomasia. Si pensi al loro caso con la Turchia. Si pensi alla circostanza che i curdi sono il solo gruppo etnico senza uno Stato, e il cui unico sponsor è l’America. Che però potrà influire sempre di meno, visto che dovrà diminuire la sua presenza sul territorio iracheno”.

E che mondo prevede dopo le elezioni negli Usa, il prossimo anno?

“No change, nessun cambiamento, che vincano i repubblicani o i democratici. Solamente una forte crisi economica potrebbe indurre il governo degli Usa a un minor impegno all’estero, pressato da un’opinione pubblica interessata alle questioni interne. Ma non scommetterei su un nuovo isolazionismo. E d’altronde gli Stati Uniti sono la sola potenza in grado di mantenere una sorta di ordine mondiale”.

Ma lei pensa che l’America non avrà difficoltà interne di carattere economico o che, pur avendole, riuscirà a risolverle?

“Non so quale effetto a catena potrebbe avere un’eventuale crisi economica. So però che gli Stati Uniti hanno già superato due crisi molto pericolose: quella provocata dalla cosiddetta new economy e il dopo 11 settembre”.

Perché gli americani si sono tragicamente impantanati in Iraq, nonostante i soldi e soldati, la tecnologia e la lezione del Vietnam alle spalle? 

“Perché erano persuasi di poter avere la collaborazione degli iracheni. Erano convinti di andare a “liberarli”, senza immaginare la realtà multi-etnica, religiosa, tribale e di clan che avrebbero invece incontrato. Si sono così trovati a dover combattere un’insurrezione, a dover impiegare gli uomini sul terreno con compiti di controllo e di pattugliamento. Ma gli Stati Uniti non hanno un esercito di fanteria leggera, stile coloniale, per un’operazione di questo tipo. E poi hanno sbagliato la gestione iniziale con Paul Bremer, il proconosole scelto dall’allora ministro della Difesa, Donald Rumsfeld: un disastro”.

Che genere di errori?

“Innanzitutto quello di essersi lasciati condizionare dagli esuli sciiti. I quali avevano l’interesse a sfasciare l’Iraq per ricostituirlo come un loro dominio. Poi non hanno dato retta ai generali, che avevano indicato due ipotesi d’intervento: abbattare Saddam Hussein, ma poi ritirarsi. O rimanervi per un periodo, ma con la capacità di controllare il territorio. Invece Rusmfeld era sicuro che proprio l’alta tecnologia di cui disponevano, avrebbe consentito tale controllo, da una parte. E dall’altra che all’attività specifica e quotidiana avrebbero badato gli stessi iracheni. A ciò s’aggiunga l’aver dovuto rimettere in piedi dal nulla un esercito iracheno dopo averlo smantellato. E la scarsa considerazione dei contendenti verso gli americani”.

Ognuna delle parti in causa aveva qualcosa da recriminare…

“Gli sciiti li consideravano dei traditori, perché ancora si ricordavano di quel che era successo nel 1991, quando essi furono incitati dagli americani a rivoltarsi contro Saddam, e poi ne pagarono la durissima repressione; senza l’aiuto di nessuno. E non potevano certo sperare, gli americani, d’avere riconoscenza dagli spodestati sunniti (né dalla pur piccola comunità dei cristiano caldei)”.

Perché questo gigante d’America non riesce a catturare Bin Laden?

“Ma per catturare Totò Riina noi quanto ci abbiamo messo?”.

Non è la stessa cosa…

“Nel senso che nel caso di Bin Laden è molto più complicato. Costui si muove al confine fra l’Afghanistan e il Pakistan, cioè in una zona dove il concetto di ospitalità è sacro. E poi gli eserciti occidentali non possono certo radere al suolo i luoghi dei presunti nascondigli; al contrario, oggi gli occidentali prestano una grande e doverosa attenzione per evitare il rischio di vittime civili. Inoltre, gli insorti fanno più paura alla popolazione di quanto non la facciano gli americani. E lì vince chi fa più paura dell’altro”.

Su questo globo tanto inquieto che tipo di influenza finiranno per esercitare la Russia e la Cina?

“L’influenza della Russia è più retorica che altro. La Cina è legata a doppia mandata con gli Stati Uniti, che è il suo vero alleato. Un alleato che la Cina sovvenziona in due modi: comprando i fondi americani, e con il proprio “basso costo” che mantiene alto il potere d’acquisto del consumatore americano. L’America consuma e non produce, la Cina risparmia e compra i buoni del tesoro americani. Il sessanta per cento delle esportazioni cinesi è in mano straniera”.

La Cina s’è “comprata” l’America?

“Direi il contrario: è l’America che s’è “comprata” la Cina”.

Sei anni sono ormai passati dall’11 settembre 2001. Troppi o troppo pochi per aver imparato come si reagisce agli attacchi e alle minacce del terrorismo?

“Forse l’insegnamento più importante è che la storia non si fa con l’ideologia. Gli americani hanno investito ingenti risorse contro il terrorismo e con successo, se si pensa che, da allora, non hanno più subìto attentati sul loro territorio. Non solo. Alle ultime elezioni il settanta per cento della pur piccola comunità dei musulmani d’America -tre, quattro milioni di cittadini-, ha votato per il presidente George W. Bush. Nel Vecchio Continente la situazione è diversa. Noi europei siamo il ventre molle dell’Occidente, anche se riusciamo a coordinare l’azione delle varie polizie degli Stati”.

Qual è la principale differenza nell’approccio al fenomeno?

“La tendenza di noi europei a considerare il terrorismo un crimine, anziché un atto di guerra, come accade per gli americani. Questo implica, per loro, determinate azioni di terrore nel terrore, mentre questo atteggiamento non fa parte della nostra cultura giuridica. Qui, per esempio, si distingue fra “terroristi” e “guerriglieri”. In verità sono due eccessi opposti e sbagliati. Bisognerebbe saper trovare una ragionevole e ragionata via di mezzo, che naturalmente passa attraverso una forte collaborazione con i servizi dei Paesi islamici. Certo, non può essere il maresciallo dei carabinieri a infilarsi in quella rete di intelligence, se non ha l’aiuto di chi opera in Egitto, in Algeria, nei Paesi del Maghreb, in Giordania o in Arabia Saudita. Cioè dove c’è la prima linea impegnata nella lotta al terrorismo”.

I militari italiani sono oggi presenti in Afghanistan, in Libano e nel Kosovo, per restare ai luoghi più esposti. Sono più le analogie o le differenze fra queste tre missioni?

“Le differenze riguardano le culture delle popolazioni, il modo nel quale sono strutturate le società dove operano i nostri militari. Ma le tecniche d’intervento e le regole d’ingaggio sono più o meno le stesse”.

Alla classica domanda del “ma chi ce lo fa fare”, lei che risponde?

“Se l’Italia vuole avere un ruolo da potenza che conta a livello internazionale, non può essere assente dal contesto internazionale. Perfino in luoghi lontani come Timor Est”.

Le missioni hanno “certificato” questo ruolo dell’Italia nel mondo?

“Sì. Direi, anzi, che quest’elemento è stato il più qualificante della nostra politica estera negli ultimi anni. Anche quando ci offriamo come mediatori di un conflitto, sono solo le parti in causa a poter riconoscere il ruolo terzo dell’Italia. E perciò queste missioni contribuiscono pure ad aumentare la credibilità internazionale del nostro Paese”.

Delle molte, ormai decine, di operazioni delle Forze Armate all’estero, qual è stata la più riuscita?

“Ne indicherei almeno due: l’intervento in Mozambico e la missione Alba in Albania. In entrambi i casi coronati col successo, la guida dell’iniziativa era italiana. E tale circostanza ha un significato importante nelle iniziative di peace-keeping, cioè tese a consolidare i processi di pace: vuol dire che questo genere di obiettivo, risponde benissimo alle nostre esigenze. Siamo in ciò aiutati dal modo in cui è strutturata la società italiana, ossia con un ruolo importante svolto dalla famiglia, e che consente di capire, forse meglio di altri, come accostarci, con umanità e familiarità, appunto, ai popoli che necessitano dell’aiuto. In più siamo molto pragmatici, e abbiamo il senso del limite. Ci preoccupiamo di quel che pensa l’opinione pubblica; gli americani e gli inglesi molto meno, per esempio. Si pensi che cosa sarebbe successo se non gli italiani, ma gli americani fossero andati a Valona, in Albania. Forse sarebbe finita come per loro finì, tragicamente, a Mogadiscio negli anni Novanta”.

Questo è il lato positivo dell’impegno italiano. E quello negativo?

“Il problema fondamentale è che la politica spesso non ha gli attributi per tutelare i vertici militari. Basti ricordare quel che è successo al generale Fabrizio Castagnetti, non voluto come responsabile strategico per la direzione dell’operazione Unifil dall’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan. Il nostro governo non doveva accontentare la pretestuosità di un siffatto pretestuoso personaggio come Kofi Annan. Anche il rapporto che la politica ha verso i suoi militari nei contesti internazionali, contribuisce alla credibilità del Paese all’estero”.

L’Onu ha più avvenire o passato?

“Ci sono due Onu, in verità: quello propriamente detto, che non riuscirà a riformarsi, e che rappresenta un equilibrio di legittimità formale, finché non pesta i piedi a nessuno. L’altro “Onu” è costituito dagli Stati Uniti. Nonostante la crisi in Iraq, gli Usa restano la potenza dominante nel mondo, e lo resteranno per decenni. Non solo dal punto di vista militare, ma verosimilmente anche da quello economico. Non è senza rilievo il fatto che molte delle classi dirigenti di altri Paesi, anche sviluppatissimi, si formino in America. Un tempo i Romani mandavano i propri figli a studiare in Grecia. Noi oggi li mandiamo in America, no? Questo crea un condizionamento psicologico molto forte nei confronti degli Stati Uniti”.

Quando avremo un mondo di pace, se mai l’avremo?

“Finché non s’inventerà una clonazione universale -ma la mia è naturalmente una battuta-, la competizione e il conflitto caratterizzeranno sempre la politica. Anche etimologicamente politica e guerra (“polemos”, dal greco) discendono da polis, la città. Il conflitto è una categoria ineliminabile e insperabile dalla politica. Il rischio di guerra è esistito da sempre nelle società, mentre la pace è una conquista relativamente recente; dall’illuminismo in poi con l’idea della “pace perpetua”. Un fenomeno tipico dell’Occidente, che però non corrisponde alla realtà delle cose che avvengono ovunque. D’altronde, non c’è un’autorità che oggi possa davvero regolare il comportamento degli Stati potenti. Le stesse Nazioni Unite sono più un’agenzia di carattere umanitario, che non un vero e proprio organo centrale per mantenere la pace e l’ordine nel mondo”.

Pubblicato il 2 settembre 2007 sulla Gazzetta di Parma