La sua Nassiriya si chiama Somalia: parla la medaglia d’oro al valor militare Gianfranco Paglia, ferito gravemente per amor di patria e di pace

Originario di Napoli e residente a Caserta, Gianfranco Paglia è nato a Sesto San Giovanni (Milano) trentasei anni fa. Già paracadutista della “Folgore” e attuale ufficiale -col grado di capitano- nella brigata Bersaglieri “Garibaldi”, è stato insignito della medaglia d’oro al valor militare. Nel corso della missione italiana in Somalia, il 2 luglio 1993 Paglia fu ferito gravemente, perdendo l’uso delle gambe. Aveva ventitré anni. Nel 1997 ha chiesto e ottenuto d’essere reintegrato nelle operazioni militari all’estero, a cui partecipa muovendosi su una sedia a rotelle. Sposato, è padre di una bambina.   

 

Per gli italiani che guardano da lontano, Nassiriya è diventata una parola familiare ma dolorosa. Per voi militari Nassiriya che cos’è, vista invece da vicino?   

“E’ il luogo del nostro impegno. Un luogo di tristezza, certo, se si pensa ai trentuno Caduti italiani, ma anche di speranza. L’Iraq s’è liberato da un dittatore, così come in altre zone, nei Balcani per esempio, le popolazioni si sono liberate da una guerra. Se andiamo a valutare il lavoro compiuto in diverse zone operative, un lavoro che è sempre di ricostruzione dopo i conflitti, ovunque è tornata a rifiorire la vita. Pur tra mille difficoltà. A Nassiriya e dintorni abbiamo costruito ventuno scuole, progettato fogne, consegnato camion e trattori e curato una quantità di bambini. Ma purtroppo in Italia fa notizia solo l’attentato che così ingiustamente colpisce i nostri sforzi e le nostre iniziative di rinascita”.

Dalla strage nel 1961 a Kindu (ex Zaire ora Repubblica del Congo; tredici aviatori italiani trucidati) all’Iraq, passando per il Libano nell’82 e oggi approdando persino in Afghanistan. C’è un filo che lega quasi cinquant’anni di missioni nel mondo? 

“Il senso stesso delle missioni. Le missioni servono perché si ha la possibilità di fare qualcosa per gli altri. Altrimenti dovremmo imitare la Svizzera, chiusa dentro i suoi confini, senza troppo badare a quel che avviene nel resto dell’universo. Ma non mi sembrerebbe giusto. E neppure rifletterebbe il carattere solidale degli italiani”.

La Nassiriya del ’93 si chiamava Mogadiscio, e lei vi partecipò. Più somiglianze o differenze fra l’operazione nella Somalia in balia dei “signori della guerra” e quella nell’Iraq infestato dal terrorismo? 

“Quando cominciò la missione di Nassiriya, e quasi dieci anni dopo l’intervento a Mogadiscio, pensai che le due cose fossero o sarebbero state piuttosto simili. Ma strada facendo, il confronto non ha retto. Dalla Somalia siamo andati via, mentre in Iraq siamo rimasti a lungo. E comunque vi resteranno americani e inglesi. Stavolta c’è stata una maggiore continuità”.

Anche allora furono uccisi giovani in divisa. E lei sopravvisse -perdonerà l’espressione-, per miracolo. Che cosa accadde? 

“Quello che accade anche ai giorni nostri: un’imboscata. Era il 2 luglio 1993. Di mattino presto, verso le sei, stavamo controllando il territorio e rastrellando delle armi. L’operazione proseguì per un bel po’. Poi, all’improvviso, l’agguato. Allora in Somalia non s’usavano bombe, ma s’utilizzavano direttamente le persone. Verso le nove si formarono le prime barricate per strada: mandavano avanti le donne e i bambini. Ma alle loro spalle agivano gli aggressori, che cominciarono a spararci. E non poteva esserci alcuna reazione da parte nostra: rischiavamo di colpire donne e bambini”.

Che ricorda del suo incidente?

“L’imboscata durò a lungo, e proprio perché non era facile difendersi dalla violenta provocazione. Verso mezzogiorno fui colpito alla schiena da una raffica, che mi prese il midollo. La paralisi fu immediata. Però io riuscii a rimanere lucido. Mi trasportarono prima all’ambulatorio italiano e poi all’ospedale americano, dove mi salvarono operandomi d’urgenza. Ad altri andò peggio. Quel giorno abbiamo avuto tre morti e ventidue feriti”.

Fu il giubbotto anti-proiettili a tradirla?

“Il fatto è che all’epoca indossavamo solo il giubbotto anti-schegge. Vede, anche queste cose adesso sono cambiate. L’esperienza insegna…”.

E’ più tornato a Mogadiscio? 

“No, e mi fa un certo effetto sentirne parlare in tv. Pare che le bande abbiano riconquistato la città, e mi dispiace. Mi dispiace perché sembra che quel che hai fatto, sedici anni fa, non sia servito a nulla. Comunque, in Somalia per rivedere i posti, sì, ci andrei di nuovo. Ma per una missione forse avrei difficoltà nell’essere obiettivo”.

Quante possibilità ha di tornare un giorno a camminare? 

“Non lo so. Naturalmente, io non vivo per quello. Vivo per cercare di far bene e per avere un fisico pronto a un eventuale intervento che mi consenta d’avere un’esistenza, chiamiamola, “normale”.

Ha mai immaginato dove fare la sua prima camminata?  

“Io uso un’apparecchiatura con degli elettrodi che mi consentono di alzarmi e di ambulare. La prima cosa che decisi di fare quando cominciai a utilizzarla, fu di mettermi in piedi per salutare la bandiera nel corso di una cerimonia”.

Le scappa di dirsi, magari in un momento di sconforto, “ma chi me l’ha fatto fare”?  

“Proprio no. Altrimenti non avrei chiesto allo Stato Maggiore di poter continuare questo lavoro né di continuare a svolgerlo anche all’estero. Ammetto: fra lo stupore iniziale di qualcuno che vedeva quest’ufficiale in carrozzina in giro per la Bosnia, per il Kosovo, per l’Iraq…”.

Sarebbe pronto a tornare in Iraq?

“Fuor di dubbio. Vi sono già stato per quattro mesi con la Garibaldi. Mi manca solo l’Afghanistan”.

Qual è il momento più difficile per una missione all’estero?

“L’inizio. I primi giorni per ambientarsi, per capire dove sei, che cosa puoi fare, come devi comportarti”.

Si dice che gli italiani siano tra i più capaci nello stabilire relazioni civili con la gente del posto. Grande verità o pietosa bugia? 

“E’ un fatto tante volte sperimentato. Con diplomazia noi riusciamo a ottenere determinati risultati. Questo è fondamentale. E poi noi ci mettiamo grande umanità e un po’ più di passione nell’affrontare certe situazioni. Il che non significa non essere pronti a saperci difendere, quand’è purtroppo necessario ricorrere alle armi”.

A proposito: “Operazione militare di pace”. Tutti ormai lo ripetiamo (con molta ipocrisia). Ma se è militare, ossia e appunto con le armi, può essere “di pace”?  

“A volte è l’unico modo per cercare di mantenere la pace. Se si potesse farlo semplicemente sventolando la bandiera della pace… Ma non per niente non lo fa nessuno”.

Non è che l’equivoco -almeno psicologico- impedisce di inviare all’estero i blindati più sicuri e gli elicotteri più adatti a tutela dei soldati, pur di non dare adito a polemiche “guerrafondaie”?  

“Non si è mai creato questo problema. La verità è che si cerca sempre di mandare i propri uomini con l’equipaggiamento migliore e le attrezzature e i mezzi più adatti. La prima cosa è difendere noi stessi. Non ci sono equivoci”.

Che cos’è per lei la pace?

“Il reciproco rispetto. Le guerre scoppiano quando si comincia a contestare l’identità delle persone, calpestandone i diritti”.

E la patria che cos’è?

“Un valore da difendere a tutti i costi”.

Perché volle fare il parà?  

“In realtà io desideravo fare l’ufficiale pilota. Purtroppo sbagliai un esame in volo, e mi fu data l’opportunità di scegliere. Scelsi, così, il paracadutismo proprio a causa dell’iniziale passione per il volo; anche se in questo ambito il volo è forse la parte secondaria. Contano, piuttosto, lo spirito, la compattezza, l’unione fra di noi. Cose non facili da trovare”.

Ma a un figlio consiglierebbe di continuare l’avventura?  

“No. E sa perché? Perché mi creerebbe delle forti preoccupazioni. Se indossi la divisa, lo puoi fare in un modo solo: con lealtà e con onore. E ciò comporta dei sacrifici. E dei rischi”.

Da soldati sentite più sostegno, indifferenza oppure ostilità da parte dei cittadini? 

“Oggi non ho dubbi: grande sostegno. Ma anni fa forse non avrei dato la stessa risposta. Francamente, non saprei dire se il cambiamento che c’è stato, sia dovuto soprattutto all’opera di Carlo Azeglio Ciampi, che ha dato una spinta straordinaria all’amor di Patria. Un amore che era sempre presente nell’animo degli italiani, ma che non si esprimeva, non riusciva a manifestarsi. Perché l’amor di Patria non lo s’inventa: o ce l’hai e non ce l’hai. Al di là di quel che può dire qualche politico, io il Paese lo sento vicino. Per certe cose è normale che la classe politica si divida. Ma anche lì c’è una compattezza di fondo, e non solo in occasione di eventi tragici”.

“I militari vanno all’estero per soldi”. Che cosa risponde a chi considera che sia questa la ragione principale della vostra scelta?

“Ci sono tanti lavori dove rischi di meno e guadagni di più. E senza neppure bisogno di andare all’estero per lunghi periodi…Per carità, non sono i mille o duemila euro in più che ti danno al mese a cambiarti l’esistenza. Dall’estero si torna ricchi, questo è sicuro. Ma ricchi di un’esperienza unica: l’essere riusciti a far qualcosa di importante per gli altri. Pensiamo all’esempio di un chirurgo. Non è che lui “non veda l’ora” di operare uno che sta male. Però quando accade, è fiero di quello che ha fatto. Perché ha messo in pratica ciò che ha imparato e studiato per anni. Oggi non si sceglie questo genere di vita militare né per ripiego né per avere una paga sicura”.

E lei perché la scelse?

“Per passione. Mio nonno era maresciallo, probabilmente ho percepito un’aria di famiglia, anche se i miei genitori non hanno mai spinto in questo senso. Forse i valori che ho respirato in casa mi hanno inevitabilmente portato dove sono arrivato”.

Qual è la virtù del soldato italiano?  

“La capacità d’unire, al coraggio, l’umiltà. E dunque la sua straordinaria umanità”.

E il difetto?

“Finché continueremo a saper coltivare coraggio e umiltà, il soldato italiano resterà il migliore al mondo. E il mondo continuerà ad aver bisogno di lui”.

Pubblicato il 18 giugno 2006 sulla Gazzetta di Parma