Antonio Giordano: come controllare il cancro, sarà questa la sfida di domani (e i ricercatori italiani all’estero sono i più bravi)

Antonio Giordano, nato a Napoli quarantasei anni fa, è un cervello fuggito in America, dove ha scoperto e clonato, nel ’93, un nuovo gene anti-cancro, l’RB2/p130. Secondo la rivista del settore Cell Cycle, è il terzo scienziato al mondo col più alto numero di pubblicazioni nel campo del ciclo cellulare e cancro. Giordano ha fondato e presiede, a Filadelfia, lo Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine e insegna alla Temple University. Da cinque anni è tornato in Italia, facendo avanti e indietro dall’America, perché nominato per chiara fama professore ordinario di anatomia e istologia patologica all’Università di Siena. Presiede il comitato scientifico della Human Health Foundation in Italia.  

 

Lei è un cervello che fugge o che rincasa?

“Sono un cervello che si sta stabilizzando in questo sistema italiano, cercando di raccogliere i frutti di cinque anni di investimenti. Cinque anni da quando, a Siena, ho avuto la cattedra di anatomia e istologia patologica per chiara fama per un programma nel quale ho coinvolto una ventina di ricercatori. E’ la dimostrazione che anche in Italia, con le risorse appropriate e i progetti giusti, si possono sviluppare lavori di grande impatto, come per esempio il nostro ultimo. Al quale ha dedicato una copertina la rivista “Nature” lo scorso 1 luglio”.

Di che cosa si tratta?

“Il lavoro ha per oggetto i meccanismi molecolari che governano il ciclo della cellula: come la cellula si divide, quali sono i meccanismi che portano alla crescita incontrollata, e quindi al cancro. In sostanza, la comunità scientifica ha voluto chiederci quale sarà il prossimo passaggio. In che modo stiamo contribuendo alla scoperta di metodi diagnostici e terapeutici di nuova generazione in oncologia”.

Fare ricerca in America e in Italia: ci racconti le analogie e le differenze. 

“Ho scoperto e confermo sempre più che le potenzialità umane del nostro Paese sono a livello dell’eccellenza. Non temo di affermarlo: gli italiani e i giovani italiani sono i migliori al mondo. Qual è, allora, la difficoltà della ricerca? La difficoltà purtroppo s’annida nelle infra-strutture e nella mentalità in determinati ambienti. Cinque anni di mia esperienza italiana mi hanno messo a contatto anche con le meschinerie, con le polemiche insignificanti, con un sistema che non si cura di allevare le future classi dirigenti. Neanche nella medicina”.

Un esempio per dare l’idea del sistema piccino?

“Ostacoli burocratici per svolgere le proprie mansioni. Incapacità di attrarre finanziamenti. Paradossi: se non si fa parte di una certa rete, tutto si complica. Aspetto, quest’ultimo, che da un po’ di tempo mi preoccupa di meno, avendo avviato la Human Health Foundation in Italia, cioè un’organizzazione senza fine di lucro che, con l’aiuto di imprenditori che ci credono, finanzia la ricerca seguendo nuovi paradigmi sia amministrativi che meritocratici. Voglio trasferire qui l’approccio che ho appreso in America, investendo nelle regioni meno attrezzate e dove la sofferenza dei cittadini è maggiore. L’accesso alle migliori cure dev’essere uguale per tutti”.

Chi beneficerà di questo tentativo?

“I giovani per la parte della ricerca, perché potranno impratichirsi con lo sviluppo delle tecnologie. E spero i cittadini, i quali, quando la ricerca è di alto livello ne guadagnano, perché a sua volta s’alza di livello la sanità”.

Ma i giovani ricercatori come dovrebbero essere scelti?

“Sulla base della produttività, dei risultati ottenuti o che otterranno. Esattamente come avviene negli Stati Uniti. In America si danno i finanziamenti ai giovani per sviluppare programmi di ricerca: chi merita, continua”.

Qual è il male oscuro del nostro sistema: le baronie, la superficialità, la rigidità o che cos’altro?

“La mediocrità”.

Può fare, di nuovo, un esempio pratico per capire?

“La bocciatura di finanziamenti per alcuni programmi di ricerca che avevamo presentato. Quegli stessi programmi sono stati, invece, finanziati dal governo federale americano. E sono programmi che hanno generato brevetti e tecnologie di alto livello. L’Italia ha perduto quest’occasione”.

Questo quando è successo?

“Succede di continuo! Io mando i progetti alle commissioni preposte, solo per poter registrare il loro “no”. E raccontare che mi hanno risposto di no. Queste commissioni ministeriali, non meno di certe commissioni che rappresentano il cosiddetto terzo settore, sono ormai vetuste, anacronistiche. Ma lei lo sa che il 93 per cento dei finanziamenti dell’Unione europea va a Milano, e solo il 7 per cento al resto di tutta Italia? Siamo tra gli ultimi nel Continente a riavere l’investimento iniziale. A fronte di un quattordici per cento che diamo, ne riprendiamo tra il sei e l’otto. In più, non esistono dei capi-cordata, per così dire, nei progetti europei di ricerca. Non esiste una leadership italiana”.

Ma lei ha denunciato questa mancanza d’Europa alla politica d’Italia?

“Lo Stato è completamente assente a Bruxelles. In una recente circostanza istituzionale, a Napoli, io l’ho detto di persona al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Mi è parso molto sensibile e molto sorpreso della cosa. Il cosiddetto settimo programma-quadro dell’Europa è quello che più distribuisce risorse sulla salute. Sottovalutarlo, è semplicemente assurdo”.

Un suggerimento al ministro, Mariastella Gemini, per cambiare? 

“Se saranno realmente applicati i criteri di meritocrazia che il ministro ha indicato, anche nelle leggi che ha elaborato, e se i professori saranno finalmente giudicati per la loro “performance”, ossia per i risultati, già sarà stato un successo. Un suggerimento pratico, lei chiede? L’inutilità di dare finanziamenti multipli sugli stessi progetti. Dunque, diversificare, rendere il più possibile e plurale il fare ricerca in Italia, anche fra Nord, Centro e Sud. Dopodiché, esistono fior di professionalità, sia a livello accademico che ospedaliero. Per questo è amaro constatare che il sistema troppo spesso non riesce a valorizzare né a coordinare le eccellenze”.

Chi sono i cervelli fuggiti in America?

“Chiariamolo subito: non tutti i fuggitivi sono “cervelli”. Ma tutti riescono a integrarsi nel sistema americano perché, avendo una ricerca altamente produttiva, l’America offre grandi opportunità. Alla fine chiunque, se bravo e volenteroso, può inserirsi a qualunque livello. Poi ci sono punte di notevole successo italiano. La formazione scolastica in Italia è, generalmente, di ottima qualità. Per cui, chi arriva in America, arriva con le spalle larghe. E lì trova quel che difficilmente troverebbe nella sua patria d’origine: la possibilità di incontrare e interloquire anche con un premio Nobel. Anch’io, ragazzo alle prime armi, ho cominciato così la mia carriera negli Stati Uniti, lavorando nei laboratori diretti da James Watson, premio Nobel per la medicina. E avendo l’opportunità di interagire alla pari con i maggiori leader nel campo della genetica. Negli Usa tutto avviene con semplicità e umiltà. Io avevo venticinque anni”.

Quanto guadagna il ricercatore in America, e quanto in Italia?

“Sia come studente che come ricercatore senior, negli Stati Uniti uno può permettersi di comprarsi una macchina e una casa, naturalmente del livello proporzionale ai suoi guadagni. Ma la cosa più bella è che, sulla base dei risultati, il ricercatore può avere incrementi salariali molto forti. E’ incentivato a far bene”.

Qual è la scoperta più importante alla quale sta lavorando?

“Riuscire a capire in maniera sistemica come i vari geni anti-cancro che abbiamo scoperto e identificato, funzionino normalmente in un sistema integrato e complesso qual è la cellula. Tu puoi aggiustare il motore che si rompe, ma solo se sai come funziona. Dobbiamo arrivare alle terapie personalizzate, e a “cucirle” sulla base delle caratteristiche genetiche di ciascuno. Siamo sulla strada giusta, perché tutti i geni che abbiamo finora identificato, costituiscono una parte significativa della struttura che caratterizza la normale crescita della cellula. Stiamo lavorando per cercare di comprendere come questi geni si comportino durante la trasformazione cellulare. Così potremo correggerli in modo specifico con queste terapie che vengono definite intelligenti”.

Il cancro ha gli anni contati?

“E’ una malattia che si controllerà, e che già si controlla sempre di più. Come le malattie cardio-vascolari e il diabete. Ma è una malattia che, nella sua complessità, sarà debellata soltanto quando si sarà arrivati a una prevenzione perfetta. Noi dobbiamo riuscire a identificare i cambiamenti a livello molecolare non quando la persona è malata, ma quando sta bene. Lo studio epidemiologico che anche noi stiamo facendo, è quello di identificare soggetti normali suscettibili allo sviluppo di certe patologie. Stile di vita e ambiente: anche questo è fondamentale per scoprire la possibilità che insorga la malattia”.

Consigli pratici per giocare d’anticipo sul cancro?

“Intanto, maggiore e migliore informazione sugli esiti della ricerca mondiale sul cancro. Noi dobbiamo monitorarci con le ottime tecnologie oggi a disposizione, ma quando lo stato di salute è buono o addirittura eccezionale. Bisogna coltivare il rispetto per il proprio organismo. Bisogna educare i cittadini a questo, esplorando ciò che la tecnologia ci mette a disposizione. Così facendo, riconosceremo in tempo i segnali della malattia. Poi ricordo l’ultimo studio epidemiologico che abbiamo condotto, monitorando le percentuali dei tumori alla mammella. E’ una realtà sottostimata. Del 26,5 per cento nel solo 2005, per fare un esempio: 47.200 nuovi casi, anziché i 37.300 indicati. Quindi il tumore alla mammella è in crescita. Ciò significa che la prevenzione delle donne deve cominciare prima dei quarant’anni, non dopo. Significa che bisogna fare maggiore attenzione, ma senza creare inutili paure”.

Limita il suggerimento al tumore alla mammella?

“No. A parte lo studio-pilota che abbiamo fatto sulla mammella, vale anche per i tumori alla prostata o al polmone, dove stiamo sviluppando un test non invasivo sullo sputo. Bisogna anticipare la diagnosi. Mi sento di dire: non abbiate timore di farvi controllare, anche a un primo segnale. Ecco perché il dialogo con i cosiddetti medici di base è essenziale”.

Ma se lei non avesse fatto il ricercatore, che avrebbe fatto?

“Forse il magistrato. Vivere in un ambiente rigoroso e corretto, senza però inibire la creatività. Ma se fossi stato magistrato, avrei fatto di sicuro anche un corso di biologia o di medicina… Mi piacerebbe che in Italia ci fosse maggiore rispetto per le professionalità e per i cittadini. Un po’ più di etica”.

Che cosa non la fa dormire di notte, metaforicamente parlando?

“La notte dormo, ma sogno di aver predisposto un test diagnostico preventivo e non invasivo, che si possa vendere sullo scaffale di un supermercato, cioè alla portata di tutti”.

Rivolto ai giovani lei oggi li inciterebbe, con le parole di Andrea Bocelli, al celebre “Partirò”?

“Sì, i giovani devono partire, devono fare esperienze all’estero. Non, però, in maniera polemica. Non siamo più all’epoca, drammatica, dei bastimenti. Oggi l’Italia dimostra d’essere un Paese inspiegabilmente vitale. Ma gli italiani hanno bisogno di misurarsi con sistemi diversi. Abbiamo bisogno di viaggiare e di confrontarci, perché sappiamo poco di tecnologie. La tecnologia è determinante nel mondo attuale. E tuttavia a volte mi viene da domandarmi: perché un italiano brillante, capace, creativo riesce a dare il meglio di sé in un ambiente dove vige un sistema più rigoroso e anglosassone? Semplice: perché è lui, è l’italiano a fare la differenza”.

L’Italia, allora, è un Paese “spiegabilmente” vitale…?

“Ha ragione: spiegabilmente”.

Pubblicato il 9 agosto 2009 sulla Gazzetta di Parma