Parla il premio Oscar Carlo Rambaldi, papà di King Kong, Alien ed Et: “L’ignoto è sempre affascinante”

Carlo Rambaldi è nato a Vigarano Mainarda (Ferrara) nel 1925. E’ l’unico italiano ad aver vinto tre premi Oscar per i migliori effetti speciali delle sue “creature”: King Kong (premio Oscar 1977), Alien (secondo Oscar nel 1980) ed Et l’extraterrestre, il capolavoro premiato col terzo Oscar nel 1983. Una sessantina di film in Italia e venticinque in America hanno fatto ricorso alla sua arte. Nel 2000 ha dato vita a un’“Officina” per sperimentare tecniche nuove, applicate anche al patrimonio storico-artistico nazionale con opere realizzate al Vittoriano di Roma e all’Historiale di Cassino. 

 

Lei è il padre di “King Kong”, di “Alien” e di “Et”. Un uomo così a modo, come può aver dato vita a delle creazioni tanto mostruose? 

“Chi fa il bello, può fare anche il brutto: non c’è alcuna differenza. Anzi, a volte creare il brutto è più complicato, perché la cosa si presta a tante possibilità. C’è il brutto spaventoso, quello simpatico, l’antipatico e via dicendo. Nel caso di Et serviva un personaggio diverso dal terrestre. L’ho potuto fare bruttino, allargandogli gli occhi, portandogli su il naso a patatina, ingrandendogli la bocca. In questo modo ci siamo allontanati dall’umano e dal bello”.

Ma Et che cosa doveva comunicare?  

“L’innocenza, l’ingenuità, perché veniva dallo spazio per vivere fra cose sconosciute lontano dal suo pianeta. Nello spettatore doveva suscitare un istinto di protezione. Quando il regista Steven Spielberg ha visto per la prima volta ciò che avevo creato, gli è piaciuto subito e non ha voluto modifiche. Ci ho messo due, tre giorni. Facevo dei disegni che non mi convincevano. Finché una sera, a casa, vedendo il mio gatto himalaiano che sonnecchiava sul divano, ho avuto come una folgorazione: ecco Et! Questi sono gatti con la faccia molto larga, le orecchie non grandi e gli occhi azzurri: l’innocenza pura. L’ho copiato tale e quale. Ho fatto un modellino in creta e Spielberg è rimasto incantato”.

Ma gliel’ha detto che quel marziano in realtà sbarcava da casa sua?

“No. Gliel’ho detto alla fine del film. Perché lui andava in giro a sostenere che io avessi plasmato Et ispirandomi ad Einstein! Figurarsi: non c’era alcuna somiglianza. Ma io lo lasciavo dire…”.

In chi crea, prevale il fascino per l’ignoto o la voglia di sorprendere il grande pubblico?  

“L’ignoto è sempre affascinante. E’ l’alleato naturale della spettacolarità”.

Didascalicamente: che cos’è un effetto speciale?  

“Intanto è qualcosa che è nato col cinema. Speciale è perfino l’attore, che quando recita non è più lui. Il “fuori dal normale”.

Da “Guerre stellari” al “Signore degli anelli”, a “Harry Potter”  al prossimo “King Kong”: ormai il cinema è tutto un effetto speciale. Ma alla fine ci guadagna o ci perde?  

“L’effetto speciale presuppone una storia strana, fantasiosa, esagerata. Oggi i ragazzi questo preferiscono al cinema”.

Perché gli americani sono i più bravi a fare i film? (e non dica perché hanno più soldi).

“I film a effetto speciale sono molto più “salati” dei normali. Dove c’è l’attore, c’è la recita, e lì si conclude. Invece l’effetto speciale implica ore e ore di lavorazione per poi usare pochi secondi. Il costo può arrivare a dieci volte di più in confronto a un film “normale”. E gli americani non guardano mai alle spese. Che la pellicola costi venti milioni di dollari -tanto è costato Et-, o cento, loro sono sicuri che l’ammortizzeranno. Perché il loro prodotto va in tutto il mondo. Posso fare una citazione personale?”.

Avanti…

“Sempre Spielberg, e prima ancora di Et, mi aveva contattato per realizzare un personaggio per “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. La mia idea piacque e preparai un preventivo di trenta milioni di lire d’allora per lui e per l’”Universal”. In collegamento telefonico con i miei interlocutori, sparai quella cifra, che era già il doppio del budget italiano. Dall’altra parte sentii prima il silenzio, e poi un borbottio. Sa cos’era successo? Me lo rivelarono: siccome l’importo appariva troppo basso, temevano che Rambaldi non avrebbe fatto un lavoro alla sua altezza (cosa, peraltro, che non è mai accaduta nella mia vita). Questa è la dimensione dell’America”.

Quando a Hollywood la premiarono con gli Oscar, pensò che con quel suggello la carriera finiva, o che da quel dì poteva cominciare?

“A quel tempo non c’era ancora il computer, e noi realizzavamo le cose in modo diretto. Ma attenzione, usare il computer, significa dover investire molto di più. “Matrix”, per esempio, ha vinto l’Oscar. Sa quanti hanno lavorato al computer per realizzarlo? Ottanta persone. C’era quello specializzato nelle camminate, l’altro nel gesticolare, un altro ancora nelle espressioni facciali… Tutto è standardizzato e poi viene combinato. Ma Hollywood mica può attribuire ottanta premi Oscar. E così l’hanno dato all’amministratore. Il quale non sapeva niente né di animazione né di computer. Perciò quelli che oggi fanno gli effetti speciali sono terrorizzati: sanno che non prenderanno mai l’Oscar”.

Lei vive fra Roma e Los Angeles. Sono le due capitali del mondo o se lo scriviamo New York e Parigi s’ingelosiscono?  

“Confermo: sono le grandi città del cinema. E non solo del cinema”.

Approfittiamone, allora: con un effetto speciale il Colosseo potrebbe diventare che cosa?

“Qualunque cosa. Si può far vedere com’è sorto e perfino il suo contrario, distruggendolo con un effetto terremoto. Io, tra l’altro, sono molto suggestionato dalla meraviglia del Colosseo che ci hanno lasciato i nostri antenati. Pensi quant’è duro il marmo, pensi allo scavo di massi che erano più grandi del doppio di ciò che poi, di essi, veniva ridotto. Si vedano i punti di congiunzione: non ci passa una lametta! E tutto è stato fatto a mano, senza la ruota, senza il motore, senza levigare. Quello è un vero effetto speciale”.

Dunque, non può esserci un effetto più speciale della nuda e cruda realtà d’ogni giorno…?

“Questo no. Il sole che sorge e d’improvviso si spacca in due: sarebbe impossibile da vedere nella realtà. Ci vuole l’effetto speciale…”.

Si crea con la mente, con le mani o col cuore?

“Anzitutto con la mente. E con le parole: il colloquio col regista”.

Ma lei era bravo in storia dell’arte?

“Era la materia che più mi appassionava anche a Bologna, all’Accademia di Belle Arti”.

Qual è stato il suo primo, piccolo mostro?  

“Non fu piccolo: fu grande. Il mio primo lavoro fu Sigfrido, regia di Giacomo Gentilomo. Dovetti fare un drago di quindici metri con materiali che ancora non conoscevo bene. Un drago che veniva ucciso con un colpo di lancia nell’occhio: come rendere l’idea? Ho realizzato una vescica di gomma piena di carne Simmenthal: l’occhio trafitto col liquame che scendeva. Era la prima volta che nel cinema italiano si creava un effetto speciale tanto grande”.

C’è una figura che non ha ancora creato perché non si lascia creare?

“Direi che oggi qualunque cosa può essere creata. Col computer, ma anche meccanicamente”.

Il suo colore preferito per dar voce e volto ai mostri?

“Un mostro può essere spaventoso nero o bianco. I colori sono nelle mani dell’artista. E’ la mano ciò che dà la voce e il volto. E poi spesso è il regista che vuole un colore piuttosto che un altro”.

C’è una stagione più creativa delle altre?

“Guai se ci fosse. Bisogna essere pronti a lavorare sempre, persino quando meno te l’aspetti. Un produttore non sopporterebbe l’idea che in autunno, poniamo, un artista possa avere meno ispirazione…”.

A proposito: quadri, sculture, disegni, racconti. Qual è la fonte primaria o prevalente d’ispirazione? 

“Per me la questione numero uno è il tema. “Voglio fare un bosco”, per dire. Uno deve cominciare a pensarci prima. E’ bene non mettersi subito a disegnare, perché si può venire influenzati dalla cosa sbagliata. Bisogna che il tema nasca in testa per poi svilupparsi piano piano. E a quel punto persino il mio gatto, come raccontavo, può diventare una fonte straordinaria di creazione”.

Lei si diverte o soffre mentre crea le sue cose e i suoi cosi?

“C’è una buona percentuale di divertimento. Io avevo fatto tanti disegni di Et, prima di “sentire” quello giusto.

Per sapere se la creazione ha avuto successo, il giudizio dei bambini conta molto, poco o niente?

“Conta moltissimo. Finalmente si ha un segno della reazione che può avere il pubblico. A volte noi ci innamoriamo troppo di quel che abbiamo fatto. E perciò il parere di un bambino, che conferma o magari smonta le tue credenze, è molto importante. Perché il bambino è neutro. Molte volte abbiamo fatto queste prove. Racconterò un episodio. Mia figlia aveva cinque anni e, quando vide Et per la prima volta, non le piaceva. A differenze di altre sue amichette, che invece erano rimaste ben colpite. Ma mia figlia l’aveva visto che era tutto ancora in creta, e non con pelle”.

Qual è l’effetto più speciale di tutti, il segreto della sua opera?

“Lo associo a un serpente, che avevo fatto in Africa per un regista francese. C’era un problema insolubile: un uomo camminava sotto un albero, sul quale c’era un serpente che a un certo punto doveva rotolarsi attorno al collo del malcapitato. Costruire un meccanismo del genere per colpire l’attore al momento giusto, e col budget ridotto del film, era davvero un’impresa. Finché trovai la soluzione più semplice per far attorcigliare quel maledetto serpente attorno al pover’uomo: l’attore doveva camminare all’indietro, avendogli noi prima arrotolato il serpente attorno al collo. Nel momento in cui la persona si muoveva all’indietro, il serpente si sarebbe srotolato in su verso il ramo dell’albero. Abbiamo girato all’inverso, per cui dopo, con l’immagine normale dell’uomo che cammina in avanti, l’effetto ottenuto è stato perfetto”.

Perché, vent’anni dopo, la storia di Et, l’extraterreste “ritrovato”, prende ancora?   

“E’ vero, l’”Universal” continua a diffonderlo. Forse perché in vent’anni sono nati tanti ragazzi in tutto il mondo. E per loro è una novità che continua a fare tenerezza”.

Pubblicato l’11 giugno 2006 sulla Gazzetta di Parma