Afghanistan, il tutti a casa vent’anni dopo. Che cosa cambia per noi e per loro

Generale, la guerra è finita, anche se non è detto che il nemico “è scappato, è vinto, è battuto”. Eppure, non basta neanche la celebre e suggestiva canzone di De Gregori per spiegare lo storico annuncio del presidente statunitense, Joe Biden: dopo vent’anni di conflitto in Afghanistan, “la guerra più lunga per l’America”, dal 1° maggio scatta il tutti a casa. E in quel “tutti” non sono compresi soltanto i militari degli Usa e della Nato, cioè dell’ampia coalizione di Paesi che, all’indomani della strage dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle, intervenne a Kabul e dintorni per cacciare il regime dei talebani e sradicare il terrorismo. L’addio a quei monti riguarda anche gli 800 soldati italiani di stanza soprattutto a Herat -capoluogo dell’omonima provincia occidentale, terza città per grandezza-, col compito di addestrare alla sicurezza e assistere nel processo pacificatorio le istituzioni del posto sotto la guida della brigata Folgore. Un impegno che ha visto, negli anni, il sacrificio di 55 italiani caduti e l’impiego di decine di mezzi e di aerei. Non, dunque, un aiuto simbolico né marginale, bensì una presenza costante e rilevante. Il contributo a un’opera di ricostruzione all’insegna di una sempre apprezzata competenza e umanità da parte della popolazione. Siamo italiani, felici di farci conoscere e riconoscere anche nelle aree più dimenticate e disastrate del pianeta.

Ma per gli afgani è arrivato il momento di fare da sé. In barba alle molte e non peregrine incognite sul rischio di un ritiro generale senza la certezza della riconciliazione fra tutti in un nuovo e più libero Paese, la paradossale verità è che la pace si fa coi nemici.

Ecco la grande scommessa dell’Occidente: credere che i talebani si ricrederanno, aiutandoli a far cessare ogni violenza con un sistema politico onnicomprensivo. Riunione della Nato a Bruxelles e poi vertice in Turchia il 23 aprile per il negoziato sulla fine delle ostilità.

Ma la partenza dei soldati non significa abbandonare quel che in vent’anni s’è riusciti a realizzare in campo sociale ed economico. Vincere la pace sarà una sfida ben più importante. Dopo aver tanto e tanto a lungo cercato di ricostruire, il disimpegno militare alle porte deve lasciare il passo a un impegno civile e umanitario altrettanto serio. Anche per il lontano Afghanistan, come per la vicina Libia ora “riscoperta” nel primo viaggio all’estero del presidente del Consiglio, Mario Draghi, l’Italia sia capace di valorizzare il suo ruolo nel mondo.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi