Se un primo ministro (il canadese Justin Trudeau) dice che lo zar è nudo

Ci pensa un primo ministro non ancora afflitto dall’ipocrita “prudenza di Stato”, il canadese Justin Trudeau, a dichiarare quel che tutti i suoi colleghi pensano, ma nessuno dice: “Putin è un mostro”.

Basta questo per capire che cos’è successo con Alexei Navalny, il principale oppositore al regime, trovato morto “per un malore dopo una passeggiata”, secondo la prima spiegazione fornita dai carcerieri, e che suonerebbe divertente, se non fosse drammatica (“un’embolia”, la spiegazione numero due).

Quanto quest’eroe di 47 anni, tornato nella sua Patria pur immaginando la sorte che l’aspettava, potesse “passeggiare” nella colonia penale artica di Kharp (duemila chilometri da Mosca), è l’ultima favola oltraggiosa che il mondo contemporaneo non dovrebbe più tollerare.

Eppure, la persecuzione subita dall’imprigionato e isolato Navalny, le condanne che gli sono state inflitte a svariati anni di galera prive di fondamento giuridico, l’avvelenamento da parte dei servizi segreti -ma in realtà palesi- dello Zar che lo stavano portando all’altro mondo, insomma tutto ciò che già da tempo avrebbe dovuto far capire all’Occidente con che razza di “statista” s’avesse a che fare, nulla di concreto, invece, ha prodotto. Neppure innocue manifestazioni di protesta almeno in Europa: o qualcuno ricorda piazze piene al grido di “vogliamo Navalny libero”?

Nemmeno l’invasione che Putin ha scatenato contro l’Ucraina, due anni fa, e i massacri di civili nella guerra che solo lui ha voluto, hanno dato la sveglia ai governi. Che, nei migliori dei casi, si sono limitati a fornire armi e soldi agli aggrediti per difendersi, e ad approvare sanzioni economiche alla Russia di cui ancora non si comprende quale effetto pratico contro l’oligarchia e il suo sistema abbiano avuto.

Non è vero che nella Storia i conflitti la prima volta si presentano tragici e la seconda, se si ripetono con aspetti simili, comici. Anche negli anni Trenta non erano in molti a considerare Hitler un pericolo incombente non solo per la Polonia, di cui presto avrebbe preso Danzica con tutto il resto di guerra mondiale, di Lager e di Olocausto che ne seguì.

La Danzica di oggi si chiama Ucraina, il Lager ha le sembianze del Gulag e il dissenso ha il volto di Navalny scolpito per sempre: la Storia si ripete ed è, di nuovo, tragica.

Di quali e quanti altri oppositori morti per una passeggiata abbiamo bisogno, per riconoscere la mano del Nemico? Di quante altre invasioni, per capire che in Ucraina non si gioca solo il destino di Zelensky e del suo popolo, ma il valore universale della libertà e istituzionale della democrazia, cioè del modello di governo “peggiore, tolti tutti gli altri”, secondo la celebre definizione di Churchill?

L’ultima brutalità di regime impone ai governi e agli esseri ancora pensanti di non accontentarsi d’urlare la loro “indignazione”, fino alla prossima “embolia”, fino alla prossima invasione.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova