Se Israele facesse parte dell’Unione Europea

A dispetto della geografia, che lo ha disegnato lontano, e della storia, che proprio nel cuore dell’Europa ha partorito il crimine dell’Olocausto, forse è il momento giusto perché lo Stato d’Israele diventi il 28esimo membro dell’Unione europea.

Era il vecchio (già dal 1988) cavallo di battaglia di Marco Pannella, un visionario che spesso ha avuto ragione il giorno dopo, da profeta in Patria. In barba alla minuscola pattuglia radicale di cui era leader indiscusso. Dalla lotta per il divorzio in Italia alla fame nel mondo, dal ricorso ai referendum come arma di democrazia diretta all’obiezione di coscienza, alla distinzione gandhiana tra imbelle pacifismo e rigore della non violenza: non si contano le sfide che il nostro incompreso Don Chisciotte ha combattuto e vinto in campo nazionale e internazionale.

Ma quella di far diventare Israele alla stregua di Italia, Francia, Germania e le altre nazioni che compongono il nostro presente (ma che all’atto della fondazione europea, nel 1957 coi Trattati di Roma, erano appena sei, nostra Repubblica fra di esse), può contribuire a risolvere anche il drammatico conflitto senza fine in Medio Oriente.

Prima di tutto, perché costringerebbe l’Ue a non fare da comparsa, come oggi, a fronte del protagonismo nell’area degli Stati Uniti e dei Paesi arabi, oltre che della Russia per interposto Iran. L’approccio europeo, cioè politico-diplomatico prima che militare, può essere un contributo determinante contro la logica della guerra che chiama guerra.

E poi un governo israeliano stabilmente inserito in un contesto europeo uscirebbe dall’isolamento, che è sempre pericoloso sia per chi lo interpreta, sia per chi lo subisce.

Se lo Stato ebraico avesse già fatto parte dell’Ue, probabilmente anche la barbarie compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023 avrebbe registrato una reazione ben diversa in Europa. Dove non una sola piazza di Roma, Parigi, Berlino o altrove si mobilitò per denunciare quell’orrore, e per solidarizzare con le vittime israeliane di tutti i delitti contro l’umanità messi insieme in una sola strage.

Ma un governo israeliano-europeo forse avrebbe agito in modo ben diverso anche nella risposta all’attacco terroristico dell’estremismo islamico e per la liberazione degli ostaggi in mano a Hamas, distinguendo la legittima caccia agli autori del massacro dal conflitto che da troppo tempo colpisce pure la popolazione civile di Gaza, bambini, donne e anziani in particolare. E che di conseguenza sta sollevando l’indignazione delle istituzioni internazionali preposte e delle opinioni pubbliche.

“Fermatevi!”, ripete l’inascoltato Papa Francesco ogni giorno, rivolgendosi a tutti i fautori del conflitto. Da Hamas, che l’ha scatenato, al governo israeliano che vi ha reagito in modo del tutto sproporzionato, come rilevano gli osservatori, compresi quelli non ideologici.

Ma non ideologo era anche Pannella, che anteponeva la forza del diritto e i diritti della persona a qualsivoglia schieramento politico. La sua richiesta di Israele nell’Ue non era, dunque, campata per aria, ma si basava sulla realtà e lealtà della sola nazione libera e democratica da quelle parti, perciò dalla forte radice europea. Peraltro testimoniata nel fondamento liberale della società israeliana e della vita “occidentale” dei suoi cittadini.

Paradossalmente, finora sono stati i governi di Tel Aviv a restare tiepidi di fronte alla matta idea del geniale Pannella. “L’unica possibilità di andare verso una rivoluzione democratica in Medio Oriente”, lui spiegava, per dire dell’effetto benefico della sua proposta. Una medicina anche contro l’antisemitismo dilagante ovunque.

Perché la strage del 7 ottobre ha cambiato tutto, imponendo a Israele il dovere della sicurezza, e riproponendo per i palestinesi il diritto a una Patria. Nell’Ue e con l’Ue può essere meno complicato vedere come assicurare quel dovere e come garantire quel diritto. Senza altro spargimento di sangue innocente.

Pubblicato sul quotidiano Alto Adige