Quando un magistrato chiede scusa e spiega perché non funziona il sistema giudiziario in Italia

L’avevano condannato al carcere, ma girava ancora libero: com’è stato possibile? L’amaro interrogativo che tante altre volte, in casi simili, è rimasto senza risposta, adesso ha una spiegazione non meno definitiva delle sentenze. A fornirla è stato Edoardo Barelli Innocenti, il presidente della Corte d’Appello a Torino. Che ha cercato di chiarire alla stampa perché il presunto omicida di Stefano Leo, trentatreenne ucciso il 23 febbraio vicino al centro storico del capoluogo piemontese, non fosse in cella, come doveva, colpito da una precedente condanna passata in giudicato per maltrattamenti all’ex compagna.

Affranto, il presidente ha chiesto scusa alla famiglia della vittima. Rivelando, poi, che la sentenza definitiva nei confronti di Said Mechaquat, l’accusato del delitto, non è stata notificata in tempo a causa dell’arretrato di mille fascicoli, della carenza di personale e dell’indicazione data ai cancellieri di dare priorità ai procedimenti con condanne sopra i tre anni. E l’indagato per l’assassinio di Stefano Leo doveva scontare 18 mesi di prigione.

Naturalmente, saranno gli ispettori del ministero della Giustizia e l’indagine amministrativa ad accertare le responsabilità. Ma l’effetto delle dichiarazioni dell’alto magistrato è dirompente, anche perché accompagnato da altri dati allarmanti: diecimila fascicoli in fila dalla metà del 2017 in avanti. Con una conclusione senza speranza. Se il ministero non provvederà a far assumere nuovi assistenti e cancellieri, avverte il presidente, “non posso garantire che quello che è successo non possa capitare di nuovo”.

E’ un grido di dolore che tante volte i magistrati hanno lanciato, inascoltati. Ma chi glielo dice, ai genitori di Stefano, che il figlio è morto perché il sistema giudiziario funziona male? Funziona così male, al punto da non riuscire nemmeno a eseguire quanto è stato disposto dopo lunghi, sofferti e costosi giudizi.

A Stefano ha tagliato la gola un tizio che non doveva essere lì, ma in galera. Anche se con “solo” 18 mesi di condanna neppure questo è sicuro: cavilli e clemenza l’avrebbero probabilmente salvato dal carcere. Non la “certezza della pena”, ma l’impunità regna sovrana.

“Sono disperato, è tutto assurdo, ormai in Italia giustifichiamo tutti”, è l’altro grido di dolore del padre di Stefano. Ma chi l’ascolterà?

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi