Prima intervista a Paolo D’Achille, nuovo presidente della Crusca: ecco le mie idee per valorizzare la lingua italiana

L’Accademia della Crusca, il più antico e competente punto di riferimento per la lingua italiana nella Repubblica e nel mondo, ha un nuovo presidente eletto e per la prima volta romano: Paolo D’Achille, 68 anni, ordinario di linguistica italiana presso l’Università di Roma Tre.

Prende il posto di Claudio Marazzini, nominato presidente onorario al termine dei tre mandati previsti e conclusi. Il successore, che è allievo di Francesco Sabatini, storico presidente dell’Accademia, ha già la sua priorità: la scuola e la grande tradizione letteraria “che rischia di perdersi o di diventare una competenza passiva degli studenti”, spiega. “Bisogna invece rafforzare gli elementi di comunicazione tra passato e presente. “Vedea” in senso di “vedeva” è un esempio di comprensibile continuità. Il melodramma italiano e internazionale si avvicina a quel tipo di lingua che dobbiamo continuare a comprendere. Quando un centro storico mantiene i contatti con la periferia, resta il cuore pulsante della città. Altrimenti diventa sito archeologico. L’italiano, che porta bene i suoi più di mille anni, deve ora puntare proprio sulla sua continuità. E’ l’arma vincente”.

Il professor D’Achille fa un altro esempio di futuro della memoria. “Con un pochino di sforzo -sottolinea-, noi oggi siamo in grado di leggere la Divina Commedia percependola come lingua che si comprende, anche se risale al Medioevo. L’italiano di oggi è cambiato più nel lessico, nel parlato, ma la sua struttura morfologica tiene. Dobbiamo preservare e perseverare in questa capacità di coniugare il nostro passato con l’italiano di domani”.

E’ un futuro che lui vede legato agli aspetti universali dell’identità italiana, “la forte tradizione culturale di benessere del paesaggio o del cibo, della natura o della moda, dell’eleganza, dunque la forma”.

Ma quanto rischia, questo tesoro, d’essere dilapidato con le incursioni dell’inglese, unica nazione europea di lingua neo-latina, l’Italia, che si beve gli anglicismi senza tradurli o renderli in italiano, come invece fanno tutti gli altri con le loro lingue nazionali?

“Per contrastare l’abuso dell’inglese la Francia e soprattutto la Spagna e l’America latina hanno anche economicamente un mercato internazionale più ampio”, spiega. “A differenza dei francesi, la nostra affezione alla lingua nazionale è più recente. Dopo l’Unità d’Italia i dialetti avevano ancora un peso forte. E poi noi siamo un po’ esterofili, modaioli, ci piace l’esotico. L’inglese ha parole più brevi e perciò titoli di giornale più facili. C’è di tutto, pigrizia compresa. Ma se gli anglismi possono essere a volte inevitabili in linguaggi settoriali, l’uso generale di pseudo-anglicismi (jobs act, green pass, ticket) fanno molto male nella comunicazione istituzionale e quando ci si rivolge a tutti. Alla Crusca siamo sommersi di richieste di parole equivalenti in italiano per termini inglesi”.

Ma quando i politici dicono “spending review, know-how, recovery fund” il neo presidente della Crusca ride o piange? “Piangere forse no, ma neanche rido. Perché non si tiene in considerazione quella parte della popolazione, molto ampia, che quelle parole non capisce”.

Anche Paolo D’Achille condivide la battaglia dell’Accademia per aggiungere nella Costituzione che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica, “richiesta che va intesa non in chiave nazionalista, ma come diritto di conoscerla e usarla anche per i nuovi italiani”.

E a proposito d’uso, che voto in pagella diamo all’italiano dei legislatori, professore? “Non darei la sufficienza e piena insufficienza per i burocrati”.

La Crusca tende la mano a tutte le istituzioni per dire e scrivere in buon italiano. Lo fece già con le Ferrovie, correggendo in “operazioni di controllo” la “controlleria” e in “viaggiatori” i “clienti”. Parole d’uso chiaro e comune al posto di termini sbagliati o inutili.

E’ la lingua italiana, bellezza.

Pubblicato su Il Messaggero di Roma