Perché solo la voce dell’Italia può contribuire a far uscire la Libia dal caos

Un’ottantina di morti dall’inizio degli scontri, diecimila sfollati solo a Tripoli, aeroporti conquistati e liberati a colpi di bombe e di propaganda. In Libia ci sono già tutti i drammatici ingredienti perché la resa dei conti fra il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte di Bengasi che marcia verso la capitale, e il “governo di accordo” guidato da Fayez al-Sarraj e riconosciuto dalle Nazioni Unite, si trasformi in guerra civile. Con gravi risvolti anche per l’Italia, la nazione europea che per storia, politica e geografia più si sente ed è vicina a quella terra in balìa di se stessa e delle onde del Mediterraneo, alle quali si consegnano molti dei suoi disperati cittadini.

L’allarme rosso è scattato a Palazzo Chigi, dove ieri Conte, Trenta e Moavero, cioè i massimi rappresentanti del governo e dei ministeri della Difesa e degli Esteri, hanno tenuto un vertice per decidere il da farsi. Che è semplice, nella sua complessità: trovare una strategia per far vincere la pace in un Paese diviso, disorganizzato e insidiato dal terrorismo dopo che altri Paesi, per scelta della Francia e con la perplessa accondiscendenza italiana, vinsero la guerra quasi otto anni fa. Una guerra scatenata per abbattere il colonnello Gheddafi, dittatore che solo gli immemori potrebbero rimpiangere. Ma, da allora, la Libia è sprofondata nel caos, senza più uscirvi.

L’Italia si trova in una posizione difficile, eppure migliore delle altre a noi antagoniste per volontà di influenza geo-politica. Siamo l’unico Paese ad aver costruito, negli anni, solidi legami coi libici. Con tutte le loro fazioni. E non solo per proteggere importanti interessi nazionali: la presenza dell’Eni risale addirittura al 1959.

Tuttavia, da sola, Roma può ben poco. Ma senza la voce dell’Italia e la sua conoscenza della Libia, nessuna coalizione di Paesi può pensare di avere successo nell’opera della necessaria e urgente mediazione. Proponendo soluzioni realistiche per evitare la catastrofe umanitaria, il gioco del terrorismo islamista e nuove ondate migratorie.

Intanto Parigi, che sta dalla parte di Haftar, è prigioniera della sua ambiguità, costretta a smentire d’aver saputo in anticipo dell’offensiva guerrafondaia di questo generale e del figlio da tutti condannata.

Ma la pace può più di ogni conflitto. L’Italia non si isoli con l’Europa per puro e polemico spirito da campagna elettorale e raccolga, invece, la sfida di far dialogare le parti, proprio mentre rombano i cannoni.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi