Pablo Atchugarry, uno scultore a Roma dove anche il marmo è eterno

Quando ai banchi di scuola dell’Uruguay, in America del Sud, si studiava l’Europa, la maestra divideva i Paesi del continente per gruppo di allievi. “A me toccò l’Italia. Mio padre cercò un po’ di documentazione per aiutarmi. E così mi trovai a parlare, dodicenne, del marmo di Carrara e del Lago di Como. Quel marmo sarebbe diventato la fonte primaria del mio lavoro, e Lecco la mia casa in Italia da più di trent’anni…”. C’è un destino anche nella scultura, sicuramente nella vita da viaggio e nella mano lieve di Pablo Atchugarry, nato a Montevideo sessantun anni fa, nonna ligure e bisnonna lombarda e ora “artista privilegiato”, come dice di sé con felice umiltà. “Sono cresciuto professionalmente in Italia, dove risiede il più vasto patrimonio storico-artistico dell’umanità e la bellezza fa parte integrante dell’esistenza e del paesaggio”, racconta. “E poi quaranta delle mie opere sono oggi esposte a Roma, capitale della cultura universale, proprio nella cornice evocativa dei Mercati di Traiano al Museo dei Fori imperiali. Quando mi affaccio a guardarle, giuro, mi emoziono. E’ come se il mio lavoro non sia stato trasportato qui con una gru di duecento tonnellate, che da via Alessandrina sollevava e collocava opere anche di 7.500 chili. Mi sembra, invece, che le mie sculture appartengano a questo luogo. Come se l’”Illuminazione”, il primo lavoro del 1979 o “Le tre grazie” del 1999 fossero nate e rimaste qui da sempre”.

L’artista italo-uruguaiano ha un catalogo in due volumi con 1800 opere (la maggior parte delle quali create in Italia) e decine di mostre realizzate in tante parti del mondo americano ed europeo. “Salvando le distanze, il mio percorso ricorda un po’ quello di Lucio Fontana, nato a Rosario, in Argentina, dove nella seconda metà degli anni Quaranta scrisse il celebre “Manifesto bianco”, ma considerato italiano perché qui maturò la sua arte”.

Ma ricorrere al marmo nell’epoca virtuale e fuggitiva di internet è una scelta controcorrente oppure nostalgia del tempo antico che fu? Lui la vede così: “Molti sostengono che il marmo non sia un linguaggio attuale. Ma il marmo è un linguaggio che dura. Tutta la storia dell’umanità si basa su ciò che raccogliamo dal nostro passato. Forse nel mio caso è una scelta inconsapevole per l’antico, anche se non mi ero mai interrogato su questo. Ho ben presente il periodo greco, arcaico e classico, l’arte degli etruschi e dei romani e la folgorazione che mi provocò Michelangelo quando ammirai i suoi capolavori dal vivo per la prima volta. Io ho scelto un linguaggio eterno rispetto a un’arte contemporanea che spesso fa prevalere l’effimero”.

Resta l’irrisolta distinzione di che cosa si possa, ancor oggi, esprimere col marmo che non si possa con la pittura o la scrittura. Atchugarry riparte da lontano: “Da bambino disegnavo e pitturavo già a otto anni. Ma chi osservava le mie cose, mi diceva: adesso sei pronto per la terza dimensione, quella della profondità e dello spazio. Passai, allora, al cemento e al legno per costruire le prime cose. Finché scoprii il bronzo e soprattutto il marmo di Carrara, la svolta. Più è bianco, più è puro, meno altri minerali vi sono intervenuti. E’ un marmo molto compatto, si possono creare cose fini. E poi raccoglie la luce in un modo molto particolare, il che è decisivo per uno scultore. Un marmo così chiaro e luminoso, consente quei chiaroscuri che, con altri materiali, sarebbero impossibili”.

Percorrendo l’esposizione colpiscono soprattutto due cose, fra le altre: la verticalità delle creazioni e una certa serenità nelle raffigurazioni, spesso femminili. Perché uno scultore sceglie di scolpire “verso l’alto”?

“Nelle mie opere la figura femminile è molto importante”, sottolinea lui. “La considero l’autentico sostegno dell’umanità, specie in questo mondo di orrori e di rancori. Io ripropongo il valore dell’armonia, dell’equilibrio, della bellezza che davvero -aveva ragione Dostoevskij-, può salvare il mondo. Evoco l’alto, perché c’è qualcosa al di là. Una trascendenza, la vita e la morte che si appartengono e uniscono. Come gli esseri umani, i quali consegnano la propria unicità a qualcosa di più grande”.

Città eterna, eterni marmi è il titolo della mostra in corso fino al 3 febbraio. Eppure, neanche i marmi o le pietre sono “eterni”, come hanno purtroppo dimostrato i terroristi dell’Isis, distruggendo le rovine della romana Palmira, in Siria…“L’uomo è capace di costruire grandi cose e anche di abbatterle”, osserva Atchugarry. “Ma il marmo “parla” per un tempo prolungato. Le mie sculture sono come quei messaggi in bottiglia buttati in mare. Il messaggio di vivere in armonia con l’universo. Forse una bottiglia arriverà. E se arriva, ne sono certo, resterà per sempre”.

Pubblicato su Il Messaggero di Roma