Cesare Battisti, storia di un eroe che visse e morì perché credeva nell’Italia

Anche la Grande Guerra ha avuto il suo selfie. Il boia si è fatto ritrarre sorridente, mentre esibiva in pubblico il corpo di Cesare Battisti che aveva appena finito di strangolare. Strangolare e non impiccare, come di solito si dice per Battisti, condannato a morte in un processo-farsa per essersi comportato da italiano fra gli austriaci. Stringere lentamente la corda attorno al collo, dunque. Otto minuti d’agonia. Un esercizio più raffinato, ossia feroce, che non uccidere la vittima d’un colpo, sospendendola per la gola a un capestro.

Ma Josef Lang, l’aguzzino coi baffi e cappello a bombetta venuto apposta da Vienna, dovette compiere due volte il fine esercizio, perché la prima il cappio si spezzò. Il previdente esecutore aveva una seconda corda, quella buona, in valigia. E perciò, terminato il lavoro con successo, si prestò volentieri all’autoscatto, chiamiamolo così, che più avrebbe danneggiato l’immagine dell’Austria nel mondo: uccidevano e se ne vantavano. Annoterà, caustico, lo scrittore austriaco Karl Kraus: “Non solo abbiamo impiccato, ma ci siamo anche messi in posa”.

Nella foto in bianco e nero appaiono sei o sette tra militari e civili intorno allo strangolato, tutti compiaciuti per l’opera compiuta. E in alto, sopra di loro, troneggia il boia con le due mani afferranti il legno, dov’è appoggiata la testa ormai reclinata di Battisti. “L’imperator degli impiccati”, diceva Giosuè Carducci di Franz Joseph, il monarca del boia. Si riferiva a quel Francesco Giuseppe che regnò a lungo sull’Austria-Ungheria, dal 1848 fino al 21 novembre 1916. Cesare Battisti fu strangolato quattro mesi e nove giorni prima, il 12 luglio.

La fotografia dimostrava che non era licenza poetica l’espressione del Carducci, attinta dalla viva voce dei patrioti del Risorgimento. Era d’uso tra i presenti italiani alle esecuzioni, per esempio a quella dei Martiri di Belfiore -avvenuta in serie con fucilazioni e impiccagioni dal 1851 al 1855 nel Mantovano-, portare i propri figli perché assistessero al crimine. Bambini anche piccoli sulle spalle, ai quali i padri chiudevano gli occhi soltanto mentre si compiva l’ultimo e più drammatico atto del delitto. “Non dimenticare mai”, sussurravano i padri all’orecchio dei figli. Era il tempo della repressione di Josef Radetzky, spietato feldmaresciallo austriaco. Centinaia furono i condannati a morte, i torturati, gli espatriati per amore d’Italia. La forca o i ferri e il saccheggio dei beni per la società civile che non ci stava.

Perciò, il selfie post-Risorgimento con l’allegro assassinio di Cesare Battisti il 12 luglio 1916, portava per sempre alla luce non più dei soli italiani, ma dell’universo il lato oscuro e terribile dell’oggi per alcuni simpatico impero. Che non si pavoneggiava soltanto con belle principesse, balli di valzer e la pimpante marcia di Radetzky (ancora lui, il feldmaresciallo, stavolta in versione musicale). Quel regime strangolava in pubblico gli italiani, viaggio del boia con valigetta tutto compreso nel prezzo. Il prezzo della libertà.

E allora più che gli scritti e i comizi, ben ottantacinque, coi quali in giro per l’Italia il trentino Cesare Battisti aveva esortato senza sosta i suoi connazionali a partecipare alla guerra, è l’immagine cruda e crudele della sua morte a spiegare le sue ragioni da vivo. A spiegare perché il pensiero prevalente dell’epoca, specialmente dei giovani intellettuali, fosse schierato soprattutto dalla parte di Battisti e dell’interventismo, anziché del neutralismo e di chi voleva restare fuori dal conflitto. Si può restare neutrali davanti al boia?

Per l’Italia, dunque, la Grande Guerra fu guerra di liberazione: basta strangolatori in casa nostra. Quell’”inutile strage” con cui il 1° agosto 1917 Papa Benedetto XV aveva definito la guerra mondiale ancora in corso con l’efficacia di un moderno ma inascoltato  tweet (inascoltato e persino contestato dagli stessi vescovi, preti e stampa cattolica di vari Paesi), per gli italiani che la combattevano aveva anche un altro e non meno doloroso significato. Strage lo fu per tutti, e orribile. Né si conosce una guerra nell’intera storia dell’umanità che non lo sia stata. Tant’è che la conquista più importante dell’Europa, e dell’uomo, è la pace che qui regna da settant’anni quasi ovunque. Indietro non si torna più. La pace è un tesoro secolare, i secoli che verranno.

Ma la storia personale e collettiva di chi ha dato la vita contro l’oppressione non è mai “inutile”. L’impegno di chi si è battuto per essere libero nella propria terra, e perché liberi fossero i figli e i figli dei suoi figli, non è stato “inutile”. Nessuno definirebbe “inutile” il comportamento radicale di Nelson Mandela, “mahatma” Gandhi o Martin Luther King. Persone, al contrario, che per noi sono esemplari. Cesare Battisti e molti della sua generazione erano animati dalla stessa passione di quegli uomini liberi e giusti.

Col senno del poi e pontificando dalla poltrona di casa, quant’è facile liquidare con sufficienza chi andò (e soprattutto fu mandato) in trincea. Ma non si capirebbe lo spirito del tempo. Non si capirebbe il significato di chi denunciava il “giogo dell’Austria”, di chi considerava Franz Joseph e il suo patibolo l’odiato simbolo da abbattere. Se in quell’Italia povera e fragile il processo del Risorgimento è diventato irreversibile, se degli austriaci, oggi confinanti amichevoli e fratelli europei, siamo tornati ad amare e a condividere Mozart, il catasto teresiano e la torta Sacher, è perché non è stato inutile il sacrificio di chi ci ha reso per sempre liberi in patria.

Quando il 29 maggio 1915, cioè subito, si arruolò nel 5° Reggimento Alpini, battaglione Edolo, Cesare Battisti aveva quarant’anni ed era sposato da sedici con Ernesta Bittanti, che gli aveva dato tre figli, Luigi (Gigino), Livia e Camillo. Si arruolò come un soldato qualsiasi, ma non era un irredentista qualunque. Veniva da una famiglia benestante di commercianti, ed era nato a Trento quando la città ubbidiva, ancora, all’Impero austro-ungarico. Sono gli studi in Lettere e la laurea in geografia a Firenze a forgiarne l’italianità, respirata d’incanto in famiglia (don Luigi Fogolari, zio materno, fu condannato a morte per cospirazione e poi graziato), e mortificata nella propria terra occupata. Un’italianità aperta al mondo, sensibile, pronta al confronto con naturalezza. Cesare Battisti studiò anche a Graz e a Vienna, e fu eletto deputato del Trentino prima nella capitale austriaca nel 1911, poi alla Dieta di Innsbruck nel 1914. Gli insegnamenti e la vita senza confini lo portarono al socialismo, che interpretò in chiave umanitaria e patriottica. Una patria schiava non avrebbe mai potuto assicurare giustizia sociale ai suoi lavoratori. Perciò la battaglia culturale per un’Università italiana in Austria è legata al necessario distacco del Trentino dal Tirolo. Battaglia perduta: il contentino ministeriale di una facoltà di Giurisprudenza in lingua italiana a Innsbruck aperta nel 1904 fu subito ritirato e la novità cancellata dopo la sollevazione e gli scontri di cui furono vittime gli studenti italiani frequentanti. Non la volevano, non li volevano. Nell’occasione Cesare Battisti e Alcide De Gasperi furono arrestati fra altri e oltre cento connazionali.

Ma il geografo, il giornalista e il politico non si accontenta di scrivere e far conoscere le sue idee ovunque, fondando o dirigendo giornali, “L’avvenire del lavoratore” 1896, “Tridentum” 1898, “Il Popolo” 1900, la principale tribuna, e “Vita trentina” 1903. Lui arricchisce e fortifica le sue idee grazie al contatto personale ed epistolare con l’intellighenzia più impegnata dell’epoca. Il suo interventismo non è a sovranità limitata, né cinica adesione agli ideali più diffusi del momento, un alibi per cercare di ottenere dagli austriaci, magari sottobanco, qualche concessione territoriale. No, Battisti non è un trentino che spera di strappare la mancia dai padroni, liberando soltanto la sua piccola patria dallo straniero, e chi se ne importa del resto e degli altri. E’, invece, un italiano in cammino, un italiano colto, retto e appassionato già del Ventesimo secolo, che si batte per un interesse nobile e lungimirante: fare dell’Italia la patria unica e indivisibile che ancora, politicamente, non c’è. Coronare le aspirazioni delle tre precedenti guerre d’indipendenza rimaste incomplete. “Compiere in Trento il sogno di Garibaldi”, secondo le parole e la testimonianza di Ernesta Bittanti, moglie e vedova.

Tanto basta per mettere in risalto il provincialismo di chi ha tentato di sminuire il ruolo nazionale di Battisti, e l’ideologismo di chi ha cercato di tirarlo per la divisa, collocando il geografo tra i patrioti “buoni” che volevano il confine italiano a Salorno, anziché tra quelli “cattivi” che lo reclamavano al Brennero. Ma la storia non si cambia a posteriori. Da interventista irriducibile, da socialista della patria Cesare Battisti considerava un baluardo “la grande catena delle Alpi” e definiva “formidabile” la prospettiva del Brennero. Del geografo esperto parlavano pure le cartine che aveva disegnato. Non più, quindi, una frontiera immaginaria a Salorno fra il Trentino e il Tirolo, ma reale al Brennero tra l’Italia e l’Austria. Precisi e concordi sono i riferimenti in tal senso, presenti anche nel suo portentoso carteggio. Cancellano ogni sua precedente riserva. Così come chiare della sua evoluzione di pensiero sono le indicazioni sull’Alto Adige e perfino sulla Vetta d’Italia, evocata in una lettera alla moglie.

Nessuna sorpresa, d’altra parte. Era, questa, né più né meno la posizione del governo italiano, che col Patto di Londra del 1915 s’era assicurato, in caso di vittoria, il riconoscimento di quella frontiera strategica e geografica da parte degli alleati firmatari. Un passo storico per l’Italia, non un capriccioso braccio di ferro fra irredentisti buoni e cattivi, armati tutti di metro e di matita per misurare quanto territorio italiano rivendicare, e fino a dove, e fino a quando.

Ma ben altro era il territorio che Cesare Battisti, nel frattempo nominato tenente, deve difendere nella notte fra il 9 e 10 luglio 1916. Chiamato a resistere sul Monte Corno di Vallarsa, vicino a Rovereto, il comandante e i suoi soldati, fra i quali il vice Fabio Filzi, non ce la fanno. Mancano i rinforzi e gli alpini vengono travolti e catturati in alta quota a 1.800 metri. Lui, l’importante, ma ancora sconosciuto prigioniero, poteva scappare. Ma rinuncia a farlo. Come se volesse socraticamente andare incontro al martirio. Sapeva benissimo quale destino sarebbe toccato a un suddito e noto deputato di cittadinanza austriaca, che tutto il fiato della vita aveva speso per riscattare l’Italia dal dominio dell’Austria. Per coerenza tra quello che dice e quello che fa, quest’uomo era addirittura arrivato ad arruolarsi in armi, quarantenne: il nemico ritrovato, e in pieno campo di battaglia. L’avrebbero accusato di alto tradimento, l’avrebbero ammazzato. Esattamente quel che accadde. Domanda: e se gli italiani avessero avuto bisogno proprio di un martire per la causa, per essere scossi e mobilitarsi nel cuore e nell’anima? Il senso del sacrificio consapevole di Cesare Battisti è un interrogativo che più volte si è posto, ma che continuerà a restare senza risposta.

Fu tale Bruno Franceschini, che l’indignata cronaca italiana dell’epoca bollerà come “un rinnegato della sua terra”, a spifferare agli austriaci chi fossero quei due soldati catturati, ma non vinti, nelle loro mani. Nientemeno che Cesare Battisti e Fabio Filzi, altro noto patriota, trentenne, istriano di Pisino e già brillante liceale a Rovereto, dove risiede la famiglia.

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La mattina dell’11 luglio Cesare Battisti viene trasportato in catene, su un carretto scortato da militari austriaci, per le vie di una Trento mai tanto deserta e attonita. Il moderno Vercingetorige doveva essere esibito nella sua città natale per dimostrare a tutti che nessuno, neanche l’irredentista più famoso d’Italia, era invincibile. Il regime del Kaiser Franz Joseph faceva le cose per bene: ucciderne uno (che poi sono stati due: la stessa fine sarà riservata anche a Fabio Filzi), per spaventarne a migliaia. I pochi presenti allo spettacolo allestito furono istigati dall’inviso capo della polizia, tale Rudolf Muck. Essi inveirono e sputarono contro l’uomo armato solo del suo austero pizzetto, protetto solamente dalla schiena sempre e ancora dritta. Volarono pietre e insulti, “Hund!”, “cane!”. Lui chiese dell’acqua da bere, gliela diedero sporca. Vigliacco, traditore, truffatore, disertore: ogni calunnia urlata durante il suo passaggio, e urlata soprattutto in tedesco era lecita. Ciascuno dei peggiori pregiudizi della propaganda anti-italiana e della stampa austriaca di allora trovò, in quel momento, l’apogeo. Ma infamare Cesare Battisti è uno sport che ancora oggi si pratica con delizia, e non da parte tedesca. Per alcuni risulta insopportabile l’idea che una persona tanto semplice e convinta, sia stata capace di così alto valore per gli altri. Il valore dell’Italia.

Il giorno dopo l’esibizione del trofeo umano, è già processo all’irredentista-simbolo. Cesare Battisti non ritratta ma, al contrario, rivendica la sua italianità durante il dibattimento “politico” dalla condanna annunciata, e privo delle più elementari garanzie di diritto. Afferma d’essersi battuto con ogni mezzo, prima e dopo lo scoppio del conflitto, per la causa d’Italia. E di avere combattuto contro l’Austria per l’indipendenza dei territori italiani, e per questo è stato catturato con le armi in mano.

Chi si assume con orgoglio la responsabilità per una scelta di vita è l’esatto opposto del traditore che si vuole punire. E’, al contrario, un soldato che ha sempre parlato ad alta voce in tempo di pace, che ha fatto il suo dovere in tempo di guerra.

Eppure, la Corte che lo manda al patibolo nega all’onesto reo confesso sia il diritto, pur richiesto, a essere fucilato come soldato, anziché strangolato come un miserabile. Sia di poter indossare la divisa con la quale aveva combattuto per oltre un anno. Non lo lasciano radersi, né lavarsi. Neppure ci pensano a riconoscergli una qualche immunità che possa trasformare la condanna a morte in altro (è pur sempre un deputato austriaco; ma figurarsi, semmai è un’aggravante dell’accusa). Né gli risparmiano la vita, com’è norma, dopo che il primo tentativo di strangolamento fallisce, perché la corda si spezza. Accanirsi. Nell’orchestrata messinscena non suona turpe ucciderlo due volte.

Alla vigilia dell’esecuzione non manca il sottile linciaggio anche degli affetti: non gli permettono di scrivere l’ultima lettera ai familiari. Scrivere l’addio è tutto, scrivere è tutto per un giornalista che scolpisce le parole dall’anima. Ma dovrà dettare in fretta a uno scriba qualsiasi. E detterà, per il fratello Giuliano: “Caro fratello, mi hanno condannato a morte. La sentenza sarà eseguita subito. Mando a te il saluto estremo, che non posso indirizzare alla mia famiglia. Portalo tu, quando potrai, alla mia Ernesta, che fu per me una santa, ai miei dolcissimi figli, Gigino, Livietta e Camillo, al nonno e alle zie, allo zio e alle mie sorelle, e alle loro famiglie. Io vado incontro alla mia sorte con animo sereno e tranquillo. Ai miei figli: siate buoni e vogliate bene alla mamma, consolate il suo dolore”.

Lo vestirono con abiti larghi per fargli fare la figura del pagliaccio, mentre lo portavano nella fossa del Castello del Buonconsiglio, dove l’aspettava, impaziente, Josef Lang, il boia arrivato con corda e valigia da Vienna. Cesare Battisti aveva già assistito, anni prima, a un’esecuzione fatta da quell’aguzzino. Ne era rimasto sconvolto. E ora la testa a finire tra le mani del mostro era la sua.

Scriverà Gabriele D’Annunzio: “Fra le più grandi immagini della nostra passione è quella dell’alta vittima che cammina verso il patibolo. Tutti gli italiani la conoscono e la venerano. Una grazia insperata della sorte volle che l’attimo sublime fosse fermato per l’eternità. Non v’è potenza più nobile di quella testa levata sul collo rigido. E di quello sguardo, fisso nello splendore del sacrificio, mentre intorno si rimpiccioliscono i più goffi aspetti dell’abiezione umana. Rare volte l’anima poté riscolpire l’uomo con tanto rilievo, in un’ora adamantina di eroismo. Si vede come Cesare Battisti, pur prima di morire, portasse nel suo volto quella apparizione di bellezza morale, che sulla faccia dei martiri non si rivela compiutamente se non dopo il trapasso”.

“Viva Trento italiana, viva l’Italia!”, furono le sue ultime parole, che neanche la corda riuscì a tacitare.

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Per arrivare al più importante mausoleo dedicato a un singolo eroe della Grande Guerra, bisogna salire al Dos Trento, colle sulla riva destra dell’Adige. Ma non c’è un solo cartello stradale, né una bandiera tricolore. Nessuna scenografia storica, nessuna indicazione dice al visitatore: se cerchi la tomba di Cesare Battisti, se vuoi conoscere la fine della sua storia, se vuoi scavare un po’ nella sua intensa memoria, vai da quella parte là. Il viandante è solo, come il ricordo che è lontano. Cent’anni di solitudine, viene facile, oggi, da parafrasare. Solo era l’uomo che lo incarna, il ricordo, quando si trovò sul Monte Corno di Vallarsa -da tempo ribattezzato Monte Corno Battisti- alla testa di truppe intrappolate. Solo era quando affrontò il patibolo. Solo è stato perfino da morto, sepolto anonimo presso le fogne del Castello, come decisero i carnefici. Che poi si dedicarono, troppo tardi, a distruggere le brutali fotografie dell’evento per le reazioni negative che avevano ovunque suscitato. E a bruciare le divise italiane per non lasciar traccia né di loro né di lui. E poi ne disseppellirono il corpo e lo nascosero nella fossa di un cimitero militare con i resti di un soldato tedesco. E poi ancora, con Trento ormai liberata, le spoglie vennero deposte nella tomba familiare e dai familiari consegnate al podestà di Trento, il 25 maggio 1935, per essere trasportate il giorno dopo, con cerimonia ufficiale, in questo luogo pieno di verde e di alberi, alla presenza del re Vittorio Emanuele III.  Quassù, al Dos Trento, il geografo, giornalista, politico e alpino per amor di patria riposa finalmente in pace.

Da lontano, visto dalla stazione ferroviaria il mausoleo sul colle sembra la corona maestosa di Trento. Visto invece da vicino, per impatto emotivo l’imponente mausoleo richiama la tomba parigina di Napoleone a Les Invalides. Un modello classico dalla forma circolare, sedici colonne alte più di dieci metri. Un’opera grandiosa e suggestiva che porta la firma dell’architetto veronese, Ettore Fagiuoli. All’interno dice l’epigrafe che sormonta le colonne: “A Cesare Battisti che preparò a Trento l’unione della Patria ed i nuovi destini”. Al centro del mausoleo c’è l’altare, dove poggia la grande ara tombale con una scritta asciutta, la data della morte e il nome del commemorato: “12 luglio 1916” e “Cesare Battisti”. Ma le sue spoglie sono custodite in basso, all’interno del monumento, dove conducono tre aperture.

Attorno al mausoleo l’erba è alta. Quando piove, l’acqua non scorre, come dovrebbe, sulla struttura monumentale, ma la deturpa. Si vede che lo Stato, da cui l’opera dipende, e la pur ricca provincia “autonoma” di Trento, dove il mausoleo sorge in alto sulla città -quasi fosse una metafora tra la terra e il cielo, dove forse abitano i martiri-, hanno dimenticato.

Ma una giovane coppia di stranieri in gita rompe la solitudine del posto solenne e al tempo stesso leggero, perché mèta anche di un lungo e tranquillo percorso ecologico. Per il quale, invece, i cartelli non mancano.

La coppia improvvisa un pic-nic fra i prati bagnati da poco e poco distanti da quattro cannoni appartenenti alla cosiddetta “Batteria Battisti” sistemati accanto al monumento. Un bambino e una bambina, i figli della coppia come non è difficile indovinare, giocano a nascondino con altri amichetti. Avranno cinque o sei anni e corrono, e si divertono. “Tana libera tutti!”, grida la sorella maggiore rivolta al fratellino tra il mausoleo e i cannoni a simbolica guardia.

La sua voce, la voce dei figli degli immigrati, riecheggia nel bosco in perfetto italiano con lieve accento trentino.

Cesare Battisti ne sarebbe certamente felice.

(Tratto dal mio libro “Dov’è la Vittoria”, Collana Parco Esposizioni Novegro, Milano, 2015)