L’astronauta Franco Malerba: non voglio mica la luna (o forse sì, anche se il sogno di Marte attira di più)

Franco Malerba, nato a Busalla (Genova) nel 1946, è stato il primo astronauta italiano a volare nello spazio con la missione dello shuttle Atlantis il 31 luglio 1992. Laureato in ingegneria elettronica ed in fisica, Malerba ha lavorato in diversi ruoli e responsabilità in Europa e negli Stati Uniti nei campi della ricerca e dell’alta tecnologia (con una parentesi politica:  deputato europeo nel ‘94, gruppo Ppe).

Dal 2005 è addetto scientifico dell’Italia presso l’Ocse, l’organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico.  

 

Lei che faceva il 21 luglio 1969 alle ore 4.56 del mattino?

“L’avvenimento era di tale importanza, che i miei genitori, severi, quella volta non riuscirono a imporsi. Suppongo, ma non ne sono sicuro, che le abbiano tentate tutte per convincermi ad andare a dormire. Ero assonnato, in effetti, ma non più un ragazzino, dato che studiavo all’Università, ultimi anni di ingegneria. La mia ribellione ebbe la meglio e rimasi davanti alla tv fino alla fine. Ricordo ogni sequenza dello sbarco, che in realtà si seguiva soprattutto dalle parole dei telecronisti, meno dalle immagini. Fu uno sbarco vissuto, più che visto. Ricordo le domande sciocche che allora si facevano, sciocche naturalmente col senno del poi. Tipo: reggerà il suolo lunare? Ricordo l’emozione perché assistevo, coi miei familiari, a un evento storico. Ce la faranno gli astronauti? Ci sarà un incidente? Che cosa mai scopriranno?…”.

Quarant’anni dopo resta quello il giorno della memoria?

“Il 21 luglio fu solo l’inizio, in realtà, perché volevamo saperne di più. Per tre, quattro mesi l’attenzione rimase altissima. L’attività degli Apollo, i sospetti sull’Urss (sbarcherà o, addirittura, sarà già sbarcata?), le formidabili spiegazioni del fisico Medi in tv, che era un po’ il Piero Angela dell’epoca. Ho ricordi vividi del dopo, delle novità che si susseguivano, della nostra enorme curiosità”.

Dopo la conquista dello spazio non poteva che essere la luna la tappa successiva nella grande esplorazione dell’universo?

“Non necessariamente. Nell’ottobre del 1957 gli americani avevano scoperto che qualcosa volava sulle loro teste, e che non avrebbero potuto né fermarlo né integrarlo nel loro sistema di difesa. Sottintesa era la minaccia o la sfida alla loro leadership. La luna era un modo per riaffermare una guida, per rispondere alla strategia dei sovietici cominciata con il lancio dello Sputnik dodici anni prima. Era una tappa politica, non scientifica. Tant’è, che i primi astronauti americani non erano scienziati, e gli scienziati non erano coinvolti granché nelle missioni. Il primo scienziato-geologo arriverà con l’Apollo 17”.

Chi erano, allora, quei rivoluzionari con la tuta pronti a volare al cospetto della luna (e dell’America)?     

“Io ho avuto la fortuna di diventare quasi amico dello psicologo-psichiatra nell’ufficio preposto agli astronauti della Nasa. Persona ormai anziana, mi raccontava che agli inizi si cercavano uomini che reagissero bene “quando la loro vita era a rischio”, cioè gente in grado di dare il meglio di sé non di fronte a una situazione tranquilla, ma al pericolo”.

Che cosa ha significato l’uomo sulla luna all’epoca, e che cosa significa oggi, quarant’anni dopo?

“Allora voleva dire supremazia tecnologica, il sorpasso dell’Urss da parte degli Stati Uniti. Per una strana connessione storico-casuale, Wernher von Braun potrebbe essere paragonato a Cristoforo Colombo, nel senso che spinse per l’impresa per quanto folle essa potesse apparire, e apparisse”.

Sta dicendo che l’uomo sulla luna rappresenta una svolta pari alla scoperta dell’America?

“Sì e no. Navigare nel mare dello spazio ha contribuito al nostro progresso. Se per un attimo spegnessimo tutti i satelliti in giro -come dice con un bell’esempio il direttore dell’Esa, l’agenzia spaziale europea-, la Terra sarebbe al collasso. Ma nonostante tutto, la rivoluzione di Colombo, che aprì la via nuova di quel Continente, determinò conseguenze molto più importanti per gli uomini. In fondo la luna non è così “utile”. La sua conquista non ha portato cambiamenti significativi. Non abbiamo, per dire, pietre lunari né ori dalla luna. Lo sbarco è stato un simbolo fortissimo. Ma non molto di più. Al punto che metà di coloro che si occupano dello spazio, oggi puntano su Marte”.

La luna o Marte, lei di che partito è?

“Io sono del partito della luna, anche per ragioni, chiamiamole, anagrafiche: per Marte ci vorranno quarant’anni, e io vorrei poter vedere….Ma ci sono due ragioni alla base della mia scelta. La prima: sulla luna si può dar vita a un osservatorio in un ambiente non inquinato dalle radiazioni elettromagnetiche di cui la Terra è invece piena. Secondo: lo sviluppo della logistica per vivere fuori dalla Terra, sulla luna è ancora abbastanza a portata di mano. Se qualcosa si rompe, per dire, se mancano i viveri, se uno si ammala, si può rientrare. E’ difficile, ma è fattibile. Gli investimenti sono più giustificabili, e non dimentichiamo che è sempre la politica a stabilire se spendere o no per una determinata impresa: per Marte bisognerebbe farlo non solo a lungo, viste le distanze, ma in maniera intensa. Occorrerebbe una coerenza politico-finanziaria per decenni: chi la garantirebbe? Le missioni si fanno per ampliare la conoscenza, certo, ma anche per ricavarne un ritorno economico: medicina, centrali energetiche, alta velocità, tele-comunicazioni. Altrimenti il modello non è più sostenibile”.

Ma su Marte pare che ci sia, o ci sia stata vita, mentre sulla luna no. A proposito: si può escluderlo in modo tassativo e definitivo?

“Lei cerca lo scoop del secolo, capisco, ma io non posso accontentarla: purtroppo sono sicuro che sulla luna non ci sia vita. Neanche vita fossile. Il suo ambiente è amorfo e con forti variazioni di temperatura. Non è sabbia quella che sembra, ma polvere, somiglia al calco, è roba appiccicosa. Tant’è, che restava sulle tute, le impolverava, dando un’idea di contaminazione. La luna è immobile, non è schermata dall’atmosfera che non ha. Non c’è vento che la sradichi, né fiumi che smuovano il terreno o provochino una perturbazione del suolo. Difatti i famosi crateri sono la conseguenza dell’impatto di meteoriti, miliardi di anni fa. I meteoriti l’hanno un po’ rovinata…”.

Lo vede che alla fine il pianeta rosso “vale” di più?… Ma i tifosi del partito Marte, quando vedranno il loro beniamino, cioè l’uomo (o la donna) sbarcarvi? 

“C’è una terribile frontiera da superare: la radiazione. Troppi dimenticano il rischio di beccarsi le radiazioni ionizzanti. Ovviamente, questo riguarda anche la luna, che però è molto meno distante dalla Terra. Per darle l’idea: la sonda scesa sul satellite di Saturno, cioè in un angolo inimmaginabile dell’universo, ci mette un’ora soltanto per far arrivare un segnale. La velocità della luce non basta più per avere la simultaneità degli eventi”.

Stava dicendo delle radiazioni…

“Già, l’atmosfera finisce a cinquanta chilometri dalla Terra: da lì in poi non possiamo più respirare. C’è poi una seconda barriera dopo i diecimila chilometri, ossia quando entriamo in una zona dove riceviamo molta radiazione, e continuiamo a riceverla. Rischiamo, da essere umani, di uscirne altamente danneggiati. Dovremo, quindi, essere protetti, molto protetti. Per questo l’approccio dev’essere graduale. Per questo la luna, la vicina luna consente il pragmatismo, a differenza di Marte, mondo tutto da scoprire. Credo che sarà il robot il vero pioniere di quel pianeta. Ma mi guardo bene dal rompere l’incantesimo. Su Marte, effettivamente, c’è l’ipotesi della presenza di acqua, e magari di forme di vita. Marte parla anche alla nostra fantasia”.

Tentiamo un altro scoop: escludiamo anche l’esistenza dei marziani, vero?

“Ormai li avremmo visti. Ma forme di vita come quelle dei funghi o dei protozoi non sono da escludere”.

Ma lo sa che sulla sua e nostra luna in quarant’anni sono scesi appena dodici astronauti? 

“In compenso le difficoltà, l’architettura delle astronavi, la necessità di un lanciatore potente sono le stesse dell’Apollo 11 o quasi. Il vero cambiamento arriverà dalla robotica, che ci consentirà di pilotare le cose molto meglio”.

La bandiera americana sarà ancora piantata, lassù?

“Sì”.

Avrebbe voglia di constatarlo di persona?

“Sicuramente. Ma occorre un buon fisico. Preferisco trasferire la mia voglia ai due nuovi e più giovani astronauti italiani: Samantha Cristoforetti e Luca Salvo Parmitano”.

Le capita spesso di sognare d’essere stato il primo italiano nello spazio?

“Me lo fanno sognare. Col tempo ho anche santificato un po’ l’evento. Shuttle Atlantis, dal 31 luglio all’8 agosto 1992. Ero uno dei sette protagonisti, fra cui cinque americani e uno svizzero”.

Chi glielo aveva fatto fare?

“E’ un momento in cui si condensano tanti valori. Affrontiamo quel rischio assurdo per essere artefici di un’avventura che è la sintesi di tante cose positive: lo spirito di squadra, la professionalità, il senso del sacrificio, l’esito scientifico, l’immagine della speranza, e il saper fare il giusto, ciascuno con la sua bandierina. Io avevo due Tricolori: uno volava nella stiva dello Shuttle, l’altro era cucito addosso alla mia tuta”.

Ripensandoci, che cosa le viene subito in mente?

“La vista della Terra dall’oblò. Una vista strepitosa. E poi il contrasto fra luci e ombre è molto particolare. Il nero del cosmo è davvero nero, e la luminosità di un oggetto che emette luce, non è schermata da nulla”.

Ha mai avuto paura? 

“Paura nel senso della vita, no. I nostri cervelli erano “lavati”, cioè pronti a sopperire a qualunque emergenza. Ma sa qual è il problema di queste missioni? Un’avaria per volta la si affronta. Siamo preparati bene. Ma se capitano tutte insieme…”.

Ricorda il momento in cui disse, e si disse “un giorno volerò tra le stelle”?

“No, perché non avevo la vocazione a fare l’astronauta. La decisione è stata frutto di una certa dose di casualità. Ero molto curioso, questo sì. Ingegnere, scienziato, sportivo, brevetto di pilota…Ma la svolta fu la mia risposta a un’inserzione sui giornali. Nell’89 superai l’ultima e decisiva selezione”.

Sbarcando sulla luna, il pioniere Neil Armstrong disse, com’è noto: “Un piccolo passo per l’uomo, un balzo grande per l’umanità”. Sbarcando su Marte, che cosa potrebbe dire l’astronauta di domani?

“Come si sa, Marte è il pianeta gemello della Terra. Potrebbe dire “non vedo più la Terra”. Oppure “la Terra non è più sola”.

Pubblicato il 19 luglio 2009 sulla Gazzetta di Parma