Salire in vetta è più difficile che scendere. Ma la vera sfida è “il ritorno”: parla Reinhold Messner, il re degli Ottomila

E’ stato il primo a scalare tutti gli Ottomila -ben quattordici- della Terra. Reinhold Messner è nato a Bressanone e ha sessantadue anni. Alpinista, scrittore e per un periodo già deputato a Strasburgo (gruppo Verde), Messner è stato il primo anche a salire sull’Everest -la montagna più alta del mondo: 8.846 metri-, da solo e senza bombole d’ossigeno. Di nuovo pioniere nella traversata dell’Antartide a piedi. Ha da poco ideato e realizzato al Castel Firmiano di Bolzano il Messner Mountain Museum dedicato, appunto, alla montagna. Sposato, è padre di tre figli. 

 

Lei ha scalato tutti gli ottomila della Terra. Da dove arriva la spinta a salire verso l’alto?

“Io sono molto scettico, in verità, nei confronti di chi sale verso l’alto. Solo negli ultimi duecento anni l’uomo ha cominciato a vedere le cime come una mèta. Prima, specialmente in Asia -ma anche in Sud America-, le vette erano rispettate come zone sacre da non toccare mai. Mosé porta dal Sinai i dieci comandamenti, porta il sapere e il divino dall’alto. Però non lascia la sua gente salire sul Sinai, facendo addirittura un recinto attorno al monte. Io sono figlio della modernità, sono figlio del tempo della “conquista” delle montagne. La parola conquista è l’inizio dell’alpinismo. Ma io non salgo per conquistare, io salgo per trovare vie nuove. Fino all’angolo più alto del mondo: l’Everest”.

Una volta lassù che cosa ha trovato, che non trovava quaggiù?

“Da lassù ognuno deve tornare alla propria vita: non possiamo “restare” sulla cima. Molti pensano che la cima sia il luogo più forte della montagna, ma non è così. Come se il sentimento massimo lo si potesse provare solo o soprattutto lassù. In realtà la vetta è solamente il momento che ci fa capire una cosa: adesso non si può andare più in alto, adesso si scende. Cambi direzione. Il momento più vitale d’ogni spedizione, soprattutto se dura settimane, è il ritorno alla gente. E’ il tornare indietro dalla zona più pericolosa. Anche noi non siamo capaci di rimanere “ad infinitum” nel freddo, nella solitudine, esponendoci pure alla disperazione. Il ritorno è come una rinascita. Hai la sensazione che la vita sia la cosa più grande e più bella che esista. Ti accorgi della sua forza. E la vuoi riempire ancora con le tue capacità”.

Ma il momento più difficile dell’impresa è salire o scendere?

“Sempre salire, perché è molto più faticoso. Se c’è una grande difficoltà tecnica, a scendere fai la corda doppia. Più alte le cime sono, meno faticoso è lo scendervi in confronto all’esservi saliti. Però molti impiegano tanto tempo a scendere per stanchezza o perché, raggiunta la vetta, si sentono più rilassati”.

Che cosa “costa” di più: decidere di proseguire o rinunciare a farlo magari a due passi dal traguardo?

“La decisione della rinuncia normalmente è una questione di secondi. In pochi istanti comprendi che c’è il pericolo o hai una crisi o ti manca qualcosa nell’equipaggiamento. Non c’è una lunga lotta interiore fra l’andare avanti e il fermarsi”.

Un istante e forse un istinto…

“Sì, in alta quota molte scelte avvengono per istinto e non razionalmente”.

La traversata dell’Atlantide è tutt’altro rispetto alla scalata delle vette. E lei ha fatto pure quella. La conferma che Messner è un grande solitario?

“L’Antartide era una sfida giusta per la mia età. Vede, io sono sempre stato un avventuriero e mai uno sportivo. Sono uscito dallo steccato di casa mia per raggiungere le zone selvagge, per vedere se riuscivo a sopravvivere. Prima da arrampicatore nella verticale, poi ho scelto l’alta quota, e i grandi deserti, e gli studi quasi da scienziato sullo Yeti e sulle montagne sacre. Successivamente sono stato eletto al Parlamento europeo e ora ho promosso questo museo, di nuovo, da solo….In ogni campo, voglio dire, ho cercato di toccare il limite delle possibilità andando per conto mio. Però nella grande maggioranza delle mie imprese ero in compagnia. Io ho fatto anche le solitarie, ma non sono un solitario”.

Ande, Alpe, Himalaia: qual è la catena montuosa che più l’emoziona?

“Le Dolomiti. Sono delle montagne imbattibili. Qualcosa di simile l’ho visto in Tibet e in Nuova Guinea. Io ho fatto centoventi spedizioni e ho visto quasi tutte le montagne del mondo. Pure il Cerro Torre in Patagonia: bellissimo. Ma il fascino delle Dolomiti è ancora maggiore. Oltre i prati verdi spuntano queste muraglie che hanno mille metri e più. Le Corbusier, il grande architetto, ha scritto che le Dolomiti sono le costruzioni più belle mai fatte -dice lui- da Dio. Ma in una zona selvaggia e con ghiaccio non avrebbero la stessa imponenza. E’ il verde sommato alla roccia che le rende straordinarie. E poi queste forme…Nessun architetto avrebbe potuto immaginare le Tre Cime”.

La prima scalata fu con suo padre, giusto?

“Sì, con i miei genitori e proprio nelle Dolomiti, dove vivevo. Avrò avuto cinque, sei anni. Da bambino non si può andare sui tremila metri senza genitori”.

Ma un giorno chiunque potrà salire sull’Everest o resterà comunque un privilegio per pochi?

“Chiunque no, però oggi paghi e vai su. Di norma l’Everest costa sessantamila dollari. Ma la garanzia non c’è: se il tempo non lo permette, non si sale. Eppure migliaia di persone ormai pagano perché gli sherpa preparino il percorso e li facciano salire”.

La montagna come affare che affare è?

“Io non direi neanche che sia un affare. Chi organizza queste cose, non so se ci guadagni, alla fine. Non conosco i conti”.

Consumismo delle vette, piuttosto?

“E’ consumismo, non c’è dubbio. Oggi la salita dell’Everest è “comprabile”. Vent’anni fa non era possibile. Ma io non lo farei mai, oggi. Io non posso “comprare” un’avventura, non posso “comprare” la sofferenza del freddo e dell’alta quota. L’alpinismo è anarchia: lasciare casa propria e cimentarsi nel pericolo, portando sulle spalle non solo lo zaino, ma pure la responsabilità per la vita di sé e dei compagni. Viceversa, ora la gente vuole salire e dice: non voglio soffrire, non voglio morire. L’alpinismo comincia dove il turismo finisce. Il turista ha il diritto di “consumare”, perché paga. L’alpinista va dove non c’è la possibilità di consumare”.

Qual è stata la più impossibile delle sue imprese?

“Sulla roccia la più difficile è stata sul Monte Cavallo nelle Dolomiti. Fu una salita molto sognata ma con un passaggio-chiave insidiosissimo. Sugli ottomila metri direi il primo, il Nanga Parbat. Intanto perché lì è morto mio fratello e poi perché si trattava della parete più alta del mondo. Se fosse stata la decima delle mie imprese, dunque con più esperienza, forse oggi nel ricordo sarebbe una delle tante. Invece delle grandi traversate la più “giocata” è stata quella della Groenlandia, da Sud a Nord. Davvero al limite: il tempo era sempre brutto”.

Lei è anche uomo di mare o proprio no?

“Ultimamente ci sono andato con la famiglia. Però non fa per me. I bambini ridono, quando dico che non so nuotare”.

Può la montagna diventare un ponte fra le genti o è banale retorica?

“Molte volte i confini coincidevano con le catene delle montagne. Ma quando le persone salgono in alto, fanno tutte la stessa esperienza. Io non credo nelle cose lette o apprese, credo nelle cose vissute, sperimentate di persona. Se un cinese, un brasiliano o una sudafricana vanno sull’Everest, una volta tornati a casa avranno un linguaggio comune, pur parlando tre lingue diverse. E poi le culture della montagna hanno inventato certi modi di sopravvivenza che sono simili, dagli indios del Sudamerica ai tibetani dell’Himalaia. Il mio prossimo museo, che spero di realizzare in tre, quattro anni, affronterà proprio il tema delle popolazioni di montagna del mondo intero. E sarà l’ultimo. Poi incomincerò una settima vita…”.

Invece qual è il senso del museo di Castel Firmiano, a Bolzano, da poco inaugurato?

“Non ha un senso. Così come non ha un senso il salire sull’Everest. Io racconto mi limito a raccontare delle storie. A mio parere la storia dell’alpinismo, come del resto quella ben più ampia dell’umanità, è la somma di tutte le storie vissute. E purtroppo la maggior parte di queste storie non viene mai narrata. Chi riferisce del cuoco di Napoleone? Chi ci svela le vicissitudini dell’uomo che teneva i cavalli di Giulio Cesare? Noi conosciamo solamente le storie dei grandi personaggi. Bene: io ho tentato di mettere insieme le storie che ho potuto raccogliere. Ho messo, per esempio, un sacco da bivacco con dentro un manichino di grandezza umana naturale circondato da ramponi, staffe e così via. E’ esattamente il materiale utilizzato da Walter Bonatti per le grandi salite sulle Alpi. Se uno pensa a quel che Bonatti ha fatto, potrà rendersi conto del sacrificio, e domandarsi: ma veramente stava rannicchiato così in parete con mille metri sopra e mille metri sotto? Vengono i brividi”.

Qual è la morale della favola, anzi, del racconto?

“Che è molto facile narrare delle storie in un museo. Grazie alle persone che hanno vissuto queste imprese straordinarie -Bonatti compreso- e che mi hanno cortesemente lasciato per un po’ di tempo i loro reperti originali, io cerco di far crescere le emozioni nella gente. E poi le rivelo un dettaglio. Qui la cima la faccio vedere, ma non la faccio toccare. Come accadeva una volta: zona sacra”.

A proposito di emozioni: che pensa delle aspre polemiche sull’orso Bruno ucciso in Baviera?

“Puro populismo. Provo rabbia per quello che ha fatto Pecoraro Scanio. Io non rispondo perché, a differenza del ministro dell’Ambiente, non sono più in politica. Però questo orso era uscito da un habitat ed era entrato in un altro habitat dove non può stare. Era pericoloso sul serio. Io ho studiato dieci anni gli orsi nel Tibet e so quale paura incutono alle persone del posto. Mica ammazzano soltanto pecore. L’orso può ammazzare una mucca, l’orso può ammazzare con facilità una persona. Di solito non lo fa, ma Bruno non era del tutto sano: altrimenti non avrebbe ucciso venti pecore in serie, lasciandone le carcasse. In genere un orso le mangia in una settimana e poi se ne va. Inoltre, non entra nei paesini. Se comincia a farlo, e di notte girovaga, bisogna stare molto attenti. E chi paga per i danni causati, per la paura degli abitanti? Noi abbiamo “umanizzato” tutte le Alpi. Tuttavia ci sono ancora degli angoli di territorio dove l’orso può stare, tipo in Slovenia e nel Trentino. Ma  se esce da lì, sono guai”.

Pubblicato il 23 luglio 2006 sulla Gazzetta di Parma