La Comunità di Sant’Egidio e i suoi primi quarant’anni: il racconto del fondatore Andrea Riccardi, e quelle lacrime in Mozambico…

Andrea Riccardi è nato a Roma e ha cinquantotto anni. Docente universitario di storia contemporanea, è il fondatore della Comunità di Sant’Egidio nella capitale. Una Comunità che quest’anno compie quarant’anni. Ormai presente in settanta Paesi, l’impegno primario di Sant’Egidio è di servire i poveri e la pace, anche se la prima “opera” della Comunità è la preghiera. Rappresentanti di Sant’Egidio sono stati mediatori importanti in diversi e sanguinosi conflitti, dal Guatemala al Mozambico. 

 

Perché la Comunità di Sant’Egidio si chiama Comunità di Sant’Egidio?

“Il nome deriva dall’ex monastero abbandonato in cui abbiamo cominciato a raccoglierci. Il riferimento è a una figura che veniva dall’Oriente e andava in Occidente, un protettore dei deboli molto venerato nel Medioevo”.

La Comunità è nata nel Sessantotto. Solo una coincidenza?

“Tutto è coincidenza, e tutto può non essere una coincidenza. Sessantotto vuol dire essere nati dopo il Concilio Vaticano II. Ma significa anche trovarsi nel turbinio del cambiamento di chi voleva costruire un mondo nuovo. Per noi il Vangelo letto e vissuto era la vera strada per costruirlo, quel mondo”.

Ma i liceali di allora -e lei era tra questi- che cosa avevano di diverso da quelli di oggi?

“Spesso i paragoni tra generazioni rischiano d’essere tristi, rischiano di trasformarsi in inviti alla nostalgia. Io preferisco pensare che ogni generazione sia diversa l’una dall’altra. Molto diversa. E che ognuna abbia le sue bellezze e i suoi problemi”.

Quali erano e restano i due, tre grandi obiettivi della Comunità?

“L’obiettivo era il mondo intero, nel senso di mondo sotto casa e di grande mondo. La luce che ti accompagna nel cammino, e che ti fa scoprire tante dimensioni della vita. La fede vissuta nel Vangelo. La consapevolezza di San Giovanni Crisostomo: niente ci rende più simile a Dio che l’amare gli altri. Fin dall’inizio gli altri, per noi, sono stati i poveri, che allora erano soprattutto i baraccati. Oggi i poveri sono gli anziani, gli zingari, le periferie della città italiane ed europee, i malati di Aids in Africa”.

In quarant’anni quel “grande mondo” prima evocato, da una parte s’è molto secolarizzato, dall’altra ha visto crescere il fondamentalismo religioso. Come opera una comunità di credenti in questo contesto di sempre più forte contrapposizione fra chi snobba la fede e chi vuole imporla agli altri?

“Io ritengo che quarant’anni fa ci fosse un’idea piuttosto diffusa, l’idea che una maggiore modernità avrebbe portato a una sempre minore fede religiosa. Sembrava una storia quasi inevitabile. In realtà, è andata diversamente, e non perché non ci sia stata secolarizzazione nel frattempo, ma perché esiste un popolo credente, perché esiste la fede di popolo. Il nostro non è il tempo della fine del Cristianesimo né delle religioni”.

Che tempo è?

“E’ un tempo complicato, in cui ognuno cerca la sua identità. Non si sta nudi davanti ai venti del cambiamento. Nel cercare un’identità, il fondamentalismo è patologia della religione”.

Ma i cristiani che ruolo possono interpretare fra le novità e il sempre?

“Il Duemila è il tempo sia della forte religiosità, sia dell’intensa secolarizzazione. Negli anni Sessanta dirsi cristiani sembrava un’opinione da ultimo dei mohicani. Oggi non è così. Eppure, dirsi cristiani anche oggi si presenta come una scelta radicale e controcorrente nella fede e nell’amore. Una scelta che non resta prigioniera solo delle cose apparenti e materiali che si possono consumare”.

Chi sono i nuovi poveri in Italia e nel mondo?

“In Italia esiste la grande povertà degli anziani. Oggi vivere di più è una grande conquista. Ma se sei troppo vecchio, “scocci”, “disturbi”. Con la crisi economica comincia, inoltre, anche la povertà di chi ha fame. Quanto al mondo i nuovi poveri sono i figli delle guerre e delle malattie”.

Domanda enciclopedica, ma risposta, se possibile, telegrafica: come si combatte la povertà del pianeta e nel pianeta?

“Intanto accorgendosene. Poi con il contributo del vissuto cristiano: non si può vivere per se stessi. Chi vive per se stesso, muore. Un Paese che vive soltanto la sua dimensione, muore. Penso all’enciclica Populorum Progressio di Paolo VI, più di quarant’anni fa: abbiamo bisogno di impegno per lottare contro la povertà. E poi il socialismo è fallito. Il socialismo ha creato la povertà”.

La Comunità di Sant’Egidio ha mediato nelle guerre in Mozambico e in Guatemala. Qual è la difficoltà delle difficoltà in queste mediazioni da missione impossibile?

“Anche per la Costa d’Avorio, anche sul Kosovo ci siamo impegnati. Il primo problema è far sentire a quelli che si combattono, che essi hanno qualcosa in comune. L’insegnamento di Giovanni XXIII: quel che unisce, prevale sempre su quel che divide”.

C’è un ricordo particolare di quegli incontri lontani tra guerra e pace?

“Ero in Mozambico. Il negoziato tra le parti che si sparavano era bloccato, il momento molto duro, davvero brutto. Mettemmo sul tavolo le firme dei cittadini che chiedevano la pace. Il capo della guerriglia cominciò a guardarle, più che altro per curiosità. Andò subito a leggere i nomi provenienti dal suo luogo, quelli che lui conosceva di persona. Scoprì, così, la firma di suo padre. E pianse”.

Papa Wojtyla e Papa Ratzinger quanto sono stati e sono vicini alla Comunità?

“Sono vicini. Giovanni Paolo II ci ha intensamente aiutato, il rapporto è stato profondo anche nello spirito di Assisi. Gli incontri di pace. Quest’anno ci troveremo a Cipro, Paese ortodosso. Giovanni Paolo II è stato un grande padre per noi. Benedetto VXI ci ha confermato molto: l’amore per la scrittura e per liturgia, a cui teniamo. Lo scorso mese di aprile ci visitò a San Bartolomeo all’Isola, dedicata ai nuovi martiri del Novecento. Pronunciò parole limpide, indimenticabili. Questo Papa incarna mitezza, pastoralità e paternità”.

E lo Stato italiano quant’è vicino ai credenti di Sant’Egidio?

“Ormai siamo per metà italiani e per metà o quasi africani: la nostra Comunità è presente in venticinque Paesi di questo Continente a noi tanto vicino. L’essere italiani ci ha dato quel senso di apertura all’altro e di internazionalità che sempre ci ha accompagnato. Anche la diplomazia italiana ha collaborato e sostenuto le nostre iniziative. Ma oggi, dopo la fine della guerra fredda, in pieno confronto con la Cina e con l’India, con la crisi georgiana ben in vista, che significa “essere italiani”?”.

Le giro la sua domanda: che significa, oggi, essere italiani?

“Da soli facciamo fatica, e non basta una bandiera blu in più, l’europea, per rispondere al nuovo ruolo a cui è chiamata l’Italia. Le dimensioni stanno cambiando. C’è un valore globale, che però mette in luce anche il valore delle città come finestre del mondo. L’Italia deve giocarlo questo ruolo, deve partecipare al cantiere aperto”.

Dove vede i cantieri più “vicini”?

“Penso allo scenario dei Balcani. Penso all’Africa, dalla quale ci siamo in parte ritirati come politica e come economia. Penso alla grande attività che si può svolgere con l’America latina. La seconda Repubblica è stata vissuta in maniera troppo introversa. Bisogna non solo guardare ai problemi del Paese, ma anche saper dire che cosa sia oggi l’Italia, e quale ruolo aspiri a interpretare. Ritorno a un concetto che ho già espresso: un Paese non può vivere solo per se stesso, deve vivere per qualcos’altro”.

Lei si sente orgoglioso d’essere italiano?

“Io sono poco orgoglioso di tutto. Mi piace essere italiano. Non mi vedo, se non italiano. I tedeschi usano la parola “Heimat”.

Ce l’abbiamo anche noi, la bella parola: “Patria”. Ma che cosa chiedono, oggi, quelli che si rivolgono alla Comunità di Sant’Egidio per avere un aiuto?  

“Non lo so, perché molte domande sono silenziose. Spesso le persone che vengono da noi, non hanno il coraggio di fare le richieste per cui sono venuti. Prevale un senso di vergogna in chi viene, per esempio, a chiedere da mangiare. Dice che lo fa per darlo a qualcun un altro, non certo per se stesso…Mi viene in mente anche un’altra “richiesta”, penso al lavoro che si fa a Parma per gli anziani. E’ un bel lavoro per la riconciliazione generazionale. Credo che ci sarà sempre più bisogno di questo, di non far sentire gli altri e gli anziani a disagio. Guardare al futuro, non può voler dire dimenticare i vecchi”.

Siete attivi in settanta Paesi di quattro Continenti. Dov’è più difficile la vostra presenza, e perché?

“Non dipende mai dal luogo, dipende dalle persone. A Parma, a Roma, all’Avana e ovunque c’è una comunità che si raccoglie in preghiera tutte le sere, che legge il Vangelo, che ama la povertà e che cerca d’essere amica di tutti”.

Lei insegna storia contemporanea all’Università. Fra quarant’anni che cosa vorrebbe che gli storici scrivessero della Comunità di Sant’Egidio, ora arrivata a suoi primi quarant’anni?

“Non glielo saprei proprio dire. Facendo il mestiere che faccio, ho capito che non si è storici delle cose che si identificano con se stessi. Ma se scrivessero, con l’apostolo Paolo, “hanno conservato la fede”, già sarebbe molto”.

Pubblicato il 31 agosto 2008 sulla Gazzetta di Parma