Il disastro annunciato di Genova e la necessità di ricostruire con amore il futuro dell’Italia

Non ci sono parole, ma solo lacrime per il disastro annunciato, eppure improvviso, che ha causato decine di morti e feriti. A Genova, cuore pulsante e marittimo dell’Europa, il viadotto s’è sbriciolato come un castello di sabbia. Una disgrazia imprevedibile alla stregua di un terremoto? Certo che no. Il ponte che non c’è più, era l’unico che collegava direttamente l’est e l’ovest della città e del continente lungo la fascia costiera. Un’opera necessaria, ma vecchia, come tutta la rete infrastrutturale in Italia, che era all’avanguardia negli anni Sessanta, quando veniva costruita, ma che nel frattempo è stata superata dalla nuova qualità dei materiali, dalle sensibilità ambientali dei cittadini, dall’aumento del traffico oltre ogni misura. Lo sapevano per primi i genovesi, che da anni reclamavano alternative di trasporto: la famosa, ma fumosa “gronda”, un progetto per potenziare la rete autostradale sempre più precaria e insufficiente rispetto al mondo che cambia. Al punto che, anche economicamente, ormai costa di più rattoppare e rafforzare le vecchie strutture che puntare sulle nuove. Oltretutto, con quei rischi per la sicurezza di tutti che il crollo del Morandi, dal nome dell’ingegnere che l’ideò, purtroppo ha reso evidenti.

Ma il punto, in attesa che l’inchiesta accerti tutte le responsabilità e il tribunale le punisca in modo esemplare, è già molto chiaro: se l’Italia vuole restare all’altezza delle sue ambizioni e riconoscimenti di nazione del G7, cioè fra le più industriali e aperte al mondo, deve archiviare la visione arcaica e provinciale del “no” a tutto.

Per egoismo o campanilismo, per ideologismo o fanatismo (Dio ci salvi sempre dagli “ismi”), stiamo perdendo il senso e il senno della modernità. Le grandi opere non sono giuste o sbagliate: sono la necessità di un Paese che coltivi una sana visione del “servizio pubblico” e che si voglia bene. “Non muri, ma ponti” non è soltanto una delle più belle utopie del nostro tempo. Significa anche costruire in concreto le condizioni per consentire a tutti di viaggiare dal Brennero a Lampedusa in tranquillità, collegandosi al meglio col resto d’Europa.

Il ponte sul torrente Polcevera è anche la metafora di ciò che non vorremmo vedere mai più: un Paese ripiegato su se stesso dalle polemiche. Che ha paura di innovare e di progettare. Che si culla nei pregiudizi, anziché mettersi alla prova e in cammino.

Basta lutti inconcepibili e si costruisca con amore il futuro dell’Italia.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi