Di Maio e le pensioni d’oro: il dovere di passare dagli annunci alla Gazzetta Ufficiale

L’annuncio di Luigi Di Maio non lascia dubbi: il primo atto di giustizia sociale da parte del “governo del cambiamento” sarà la fine dei privilegi pensionistici. Con un’azione alla Robin Hood, l’esecutivo vuole togliere a chi incassa ricchi compensi previdenziali senza aver versato “i giusti contributi”, per dare a chi è invece costretto a una vecchiaia con assegni umilianti. Taglieranno tutte le pensioni d’oro sopra i quattro/cinquemila euro -ha spiegato Di Maio-, che ha pure calcolato in un miliardo il tesoretto ricavabile da distribuire, appena raccolto, al popolo delle pensioni minime. L’intervento legislativo varrà per il presente, ma soprattutto per il futuro, perché l’esecutivo introdurrà per legge quell’evocato tetto dei cinquemila, il nuovo confine della decenza. In modo, così, da riequilibrare, se non le vigenti e inique differenze nella generazione dei padri e dei nonni, almeno quelle per i figli e nipoti, domani.

Che il vecchio sistema retributivo abbia creato vistose e odiose disparità di trattamento, non lo negano nemmeno i fortunati “percipienti”, quali sono i beneficiari di assegni mensili molto più alti della quota contributiva da loro pagata anno dopo anno. Almeno trentamila persone che campano benissimo in proporzione al pochissimo versato. Perché nel mirino non è il meritato e sudato benessere nella terza età, se ben costruito e finanziato, bensì i troppi esempi di un andazzo ormai inconcepibile. Era il frutto di un sistema politico e previdenziale demagogico in epoca di vacche grasse e di clientela elettorale da coccolare. Nel pubblico impiego potevano bastare quattordici anni, sei mesi e un giorno per andare in pensione. E, nel caso, da manuale, dei parlamentari, molti meno anni e contributi erano, allora, richiesti per i vitalizi, come battezzarono per pudore i loro assegni d’oro. Almeno questi eccessi e sconcezze sono già finiti.

Il taglio radicale di quel che ancora rimane del precedente modello, è diventato, da tempo, un dovere morale e istituzionale. Del resto, nessun partito oggi contesta la necessità di voltare pagina.

Ma annunci e numeri stimati (e contestati: il Pd parla di un eventuale ricavo di appena cento milioni), non sono sufficienti per dire che la nuova alba è cominciata. In economia le svolte non arrivano mai dalle parole, che restano vacue e vuote intenzioni, finché non saranno accompagnate da leggi pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi