Coronavirus e l’antidoto alla paura

Anche gli aridi mercati finanziari hanno un’anima e nella fredda economia pulsa un cuore invisibile: perciò i conti s’ammalano di panico, che è il sentimento più umano, ma spesso irrazionale che ci sia.

Lo spettro del coronavirus che s’aggira per il mondo col suo tragico conteggio dei morti e i temibili contagi di un’epidemia che se ne infischia delle frontiere, sta già “influenzando” i rapporti commerciali e produttivi del pianeta oltre ogni previsione. Ma soprattutto oltre ogni ragionevolezza, se si pensa che, in attesa del vaccino a cui la scienza lavora, gli esperti spiegano che questa infezione è molto meno letale della famigerata Sars. Pur diffondendosi in maniera ben più estesa dopo essere sorta con troppi misteri in Cina, l’immenso Paese oggi sempre più isolato dal mondo inquieto e intento a proteggersi.

Dunque, preoccupazione e allerta massime, come testimoniano le doverose misure sanitario-istituzionali prese anche nel nostro Paese. Ora negli aeroporti sarà obbligatorio il controllo termico dei passeggeri con lo scanner. Ma attenzione a non restare vittime, oltre che della malattia minacciosa -e guai a sottovalutarla-, della paura: è l’unico morbo senza antidoti né rimedi in medicina.

Invece è proprio quello che sta accadendo nell’era spaventata della globalizzazione, quando quel che succede tra gli affranti abitanti di Wuhan, il capoluogo-focolaio nella Cina centrale dove il tempo sembra essersi fermato, è vissuto come se avvenisse dietro l’angolo di casa.

E così da Shangai a Tokio le Borse precipitano: rispetto ai pericoli, al dolore e alla corsa scientifica per alleviarli, prevale il terrore per l’ignoto. Comprensibilmente l’Europa cancella per prudenza i voli per la Cina, ma con conseguenze immaginabili per milioni di cittadini, impossibilitati a viaggiare per lavoro, famiglia, turismo. Notevole è pure l’interscambio fra Italia e Pechino: 44 miliardi di euro all’anno.

Per i cinesi, poi, il nostro Paese è il secondo in Europa più frequentato per turismo dopo la Francia, ma addirittura il primo al mondo da essi sognato, secondo ricerche, come mèta ideale. Importante è anche l’apporto della comunità cinese in Italia: è la terza (quasi 310.000 persone), ma seconda per intraprendenza di imprese individuali.

Al di là del maledetto coronavirus e dell’impegno universale per debellarlo come in passato sono state sconfitte ben più gravi epidemie, la “sindrome cinese” s’abbatte anche sulle impaurite economie.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi