L’addio della Gran Bretagna e la lezione per chi resta (in Europa)

La Gran Bretagna se ne va a mezzanotte, come Cenerentola che deve scappare via perché finisce l’incantesimo. Da domani la magia dell’Europa non c’è più e loro, gli isolani d’oltre Manica, si preparano a festeggiare un addio senza rimpianti. O forse no, chissà, dopo quasi quattro anni dal referendum che sancì il divorzio dall’Unione dei 28 -ora divenuti 27- per una manciata di voti. E in un labirinto surreale di polemiche anche giuridiche da cui nessuno riusciva più a venir fuori.

Ma anche il tempo delle recriminazioni è scaduto per l’unico popolo del continente che guida col volante a destra. Che guarda all’euro dall’alto -della sterlina- in basso. Che snobba il sistema metrico-decimale. E che in Europa stava a malavoglia solo per ragioni economico-commerciali e all’insegna delle deroghe promesse, non certo per un amore e umore europeisti mai nati e ora sepolti insieme.

Eppure, quanta malinconia si leggeva sui volti degli (altri) europarlamentari chiamati a ratificare il recesso. E di quei britannici filo-europeisti due volte sconfitti: dal referendum e dalle recenti elezioni in cui ha stravinto Boris Johnson, il campione dell’addio.

Ma l’Europa impari almeno la lezione. Tutto era cominciato dieci anni fa con Nigel Farage, il contestatore della porta accanto: sembrava folclore da pub, invece covava l’indipendentismo molto british.

Tuttavia, col suo dirigismo impotente più volte dimostrato -dalla politica estera all’immigrazione, alle scelte economiche-, Bruxelles non colse l’ampiezza della slavina che stava per abbattersi da Londra. Alla moda delle nazioni che facevano a gara per entrare in Europa, per la prima volta si contrapponeva la passerella di un Paese, oltretutto fra i grandi, che sfilava, invece, per andarsene.

Ecco il messaggio: l’Unione europea non è per sempre, se la sua classe dirigente è incapace di spiegare alla gente l’importanza dello stare insieme in pace e prosperità. Non basta sventolare l’Erasmus, se poi parametri ciechi e convenzioni anacronistiche (si pensi a quella di Dublino sull’immigrazione), rivelano le crepe del tempo e dei cambiamenti sottovalutati, dal clima alla tecnologica, al “made in Europe” non protetto a dovere. E la protesta dilaga, se i cittadini vedono che i loro problemi non contano niente per la grande politica.

L’addio di Londra è la prima vittoria politica e soprattutto istituzionale del populismo. Meditate europei, meditate.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi