Washington, abbiamo un problema…

Washington, abbiamo un problema nella più potente democrazia del mondo. Quel duello televisivo che in altri tempi decise la vittoria del più giovane e brillante candidato, il senatore democratico John Kennedy, nei confronti dell’impacciato e allora vicepresidente degli Stati Uniti, il repubblicano Richard Nixon, in epoca digitale travolge lo sconfitto.

Basta osservare i video dell’evento che circolano in internet per comprendere come mai il 70% degli americani, interpellati dopo il faccia a faccia ormai imperdibile (dal 26 settembre 1960, il già citato primo e storico dibattito in tv), abbia decretato l’affermazione di Donald Trump nella sfida con Joe Biden, direzione Casa Bianca e voto a novembre.

Con quattro mesi di anticipo dalle elezioni, o forse di ritardo politico, i democratici hanno scoperto quanto appaia, cioè quanto sia fragile l’attuale presidente che si ricandida a quasi 82 anni.

Non che il repubblicano Trump sia un infante con le sue 78 primavere. Ma il confronto è stato “straziante”, per ripetere l’appropriato giudizio di chi più si sente vicino a Biden e che, a differenza del suo cerchio magico, che come tutti i cerchi è popolato da ciechi adulatori e ottusi illusionisti, lo implora a ritirarsi in tempo per un cambio di candidato in corsa. Perché il tempo stringe e Trump si appresta a un trionfo annunciato. Nonostante -o forse anche grazie- alle inchieste che lo riguardano, alla demagogia che cavalca, alle tante dichiarazioni e comportamenti intollerabili che lo hanno reso tanto popolare e odiato al tempo stesso.

Vista da lontano, la contesa suscita un interrogativo: possibile che il destino della principale democrazia del pianeta si decida nello scontro impietoso fra il controverso Trump e l’insufficiente Biden? Quel “Paese normale” che talvolta s’invoca per l’Italia, vale anche per la matta corsa presidenziale d’America. E Biden, comunque, non si ritira.

Ma, vista da vicino, la partita è un po’ più complicata. Se è ancora così favorito, l’ex presidente Trump lo è perché, con ogni evidenza, interpreta il sentire di un’ampia fetta di popolazione inascoltata dalla “grande politica” di Washington sui quesiti concreti che pone. Dalla sicurezza all’immigrazione illegale, dal protezionismo nel commercio al taglio delle tasse, agli investimenti, alla deregolamentazione. Un mix tra nazionalismo (“make America great again”, rendere di nuovo grande l’America), e reaganismo: minor spesa sociale e maggiore libertà di mercato.

Questioni importanti per il ceto medio e per i lavoratori, ma che spesso sfuggono o sono considerate irrilevanti e persino demonizzate dai progressisti più ideologici. Ecco perché l’estremismo di Trump (o di Marine Le Pen in Francia), fa breccia anche tra quei moderati abbandonati o irrisi a sinistra. E verso i quali oggi arriva flebile la voce del democratico Biden, presidente esperto ed equilibrato, che però non ha più l’età.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova