Salviamo la lingua italiana dallo spettro che s’aggira per l’Europa: l’acronimo scimmiottato dall’inglese

Chissà se lo Spid, che si usa in modalità Dad, potrà consentire di capire cosa c’è nel Pnrr, frutto anche del Mes (o dell’Oms?). Sempre che, per combattere il Covid, Mario Draghi non finisca pure lui per fare un Dpcm, naturalmente su indicazione del Cts e su impulso dell’Ema.

E’ tempo di pandemia e perciò, in appena quattro righe, può capitare di sistemare alla rinfusa ben nove fra acronimi e sigle, il parente più stretto dei primi. Ma, a colpi di consonanti e vocali solo accennate e incomprensibili ai più, si viola la sacra legge della chiarezza che Indro Montanelli rivendicava a beneficio del lettore, “l’unico nostro padrone”. Già, ma se il padrone non capisce quel che gli diciamo, se il padrone lo costringiamo a seguirci nella selva sempre più oscura di “nomi formati unendo le lettere o sillabe iniziali di più altre parole”, cioè acronimi secondo la Treccani, che senso ha parlargli?

A scoperchiare il pentolone dell’inafferrabile e, non di rado, dell’impronunciabile, è stato Sergio Mattarella, nientemeno che il presidente della Repubblica (che finora nessuno usa né osa indicare come Pdr: segno che forse non tutto è ancora perduto).

“Se non fosse già stato fatto in qualche Ateneo -ha detto Mattarella, inaugurando l’anno accademico dell’Università di Siena- sarebbe utile uno studio per approfondire le conseguenze dell’uso smisurato degli acronimi e sulla facilità di comunicazione”. Il presidente citava espressamente “l’acronimo Pnrr”, che sta per Piano nazionale di ripresa e resilienza. Resilienza, peraltro: concetto a sua volta un tantino astruso, ma non divaghiamo. Perché se il Pnrr può essere confuso col Pnr, che è il Piano nazionale per la ricerca del Miur, cioè del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, ed è comunque parola enigmatica nell’immaginario collettivo, da tempo navighiamo in un mondo che si rifiuta di farci entrare. E’ il paradosso del linguaggio globale: più sorvola oltre ogni confine, più fatichiamo ad afferrarlo.

Ecco, l’acronimo è la sintesi dell’incomprensione. A volte figlia dell’esigenza di dire il più rapidamente possibile, ma spesso il pigro riassunto di chi tenta, malamente, di scimmiottare la brevità, che fa rima con aridità, dell’inglese multiuso frullato da internet e servito in B4 (di proposito: abbreviazione di “before”, ossia di “prima”). Ma, a forza di tagliare ciò che sembra superfluo senza esserlo, accorciamo le radici. E, soprattutto, diventiamo i marziani della narrazione. Peggio: persone consapevoli di ricorrere a un linguaggio fuori dal comune. Un modo snob e provinciale per imporre il latinorum del nostro tempo. Con l’acronimo faccio l’Azzeccagarbugli del pensiero criptico, impedendo al volgo di capire che diavolo io stia dicendo, ma facendomi, in compenso, comprendere solo dai “miei”. Gli unici a cui gli autoreferenziali in questione realmente tengano. Dunque, solo gli interlocutori della mia categoria: il politico che parla al politico (chi se ne importa dei rispettivi elettori). L’economista che riflette per il suo simile in barba all’ignaro cittadino e contribuente. Il giornalista che pensa di farsi bello col collega in faccia al pubblico, che pur si domanda: ma che significano Agcom oppure Aire? Perché i comunicatori italiani non parlano con la stessa eleganza con cui di solito vestono, o con lo stesso buongusto con cui in genere mangiano? “Parla come mangi”, è il detto popolare che al meglio semplifica l’indecifrabile pianeta che si fa pregare per essere trasparente e luminoso. Per parafrasare l’impenetrabile lingua che non parla, Omg (Oh my God, Oh mio Dio!).

Le parole valgono molto e valgono sempre. Non ha senso nasconderle, dimezzarle, mortificarle. Parlare in buon italiano non è difficile: Baup (basta applicarsi un po’).

Pubblicato su Il Messaggero di Roma