Perché io dico sì al referendum per ridurre il numero dei parlamentari

Non è la fine del mondo, né del governo. E’ solo un referendum con una domanda semplice: sì o no alla riduzione del numero dei parlamentari?

Per ben quattro volte i parlamentari stessi, che di sicuro non soffrono di autolesionismo, hanno già risposto “sì”. Nella conclusiva votazione alla Camera (8 ottobre 2019), hanno votato a favore del taglio maggioranza e opposizione: 553 sì, appena 14 no e 2 astenuti. Strada facendo, la battaglia del M5S è diventata patrimonio di tutti: non è più “il referendum di Grillo”, come forse lo sarebbe stato un tempo. Perciò, se vince il “sì”, non si premia il populismo. Si premia la più alta espressione della democrazia, che risiede nel Parlamento.

Se poi così tanti rappresentanti della sovranità popolare, e di ogni colore, hanno deciso che con 600 eletti, anziché 945, si possono esercitare tranquillamente le funzioni a loro attribuite, significa che la Repubblica non è in pericolo. Tantomeno corre rischi la Costituzione, che in origine non aveva neanche stabilito un numero fisso e intoccabile di 945 onorevoli. Introdotto, invece, con legge di revisione costituzionale solo nel 1963 al posto del precedente criterio variabile, ossia tanti eletti in proporzione a quanti abitanti. Liberi i parlamentari di fissare 945 all’epoca, liberi di fissarli a 600 oggi. Ben 57 anni dopo: non è un capriccio del momento, bensì il frutto di modifiche costituzionali proposte per anni da destra e da sinistra.

Dunque, se i legislatori hanno già certificato col proprio voto che nessuna catastrofe è all’orizzonte, il referendum perde ogni carica ideologica e polemica. E’ solo una richiesta di cambiamento.

Certo, cambiare vorrà poi dire completare con altri provvedimenti sempre del Parlamento la concreta, eppur solitaria novità in arrivo. Ma non è colpa degli elettori, se da quasi 40 anni la politica s’è impantanata fra Bicamerali fallite e grandi riforme fatte male. E infatti bocciate dagli italiani chiamati a referendum onnicomprensivi.

Adesso, invece, il quesito è unico e chiaro come il sole.

Qui non è in ballo un principio non negoziabile, ma un modo diverso di concepire il Parlamento all’opera: più al passo dei tempi.

Del resto, chi può affermare, con dati e atti legislativi, che 945 hanno fatto meglio, finora, di quanto ne farebbero 600 da domani?

Il punto è cambiare col “sì” o fermare tutto col “no”. Una piccola svolta da parte dei cittadini può mettere in moto quella grande riforma che i partiti non sono mai riusciti a portare a casa.

Perché rinunciare, allora, a quest’occasione preziosa e irripetibile?

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi