Forse c’è un destino, se il più comune dei nomi italiani, “Paolo Rossi”, diventa un campione del mondo. C’è un destino, se un timido e gracile ragazzo di provincia, nato a Prato, si forma come fortissimo calciatore nazionale non con uno squadrone di serie A, bensì col Lanerossi Vicenza in serie B, portandolo, da capocannoniere, alla promozione. C’è un destino, se il nostro Maradona, cioè il giocatore che più di ogni altro ci ha fatto piangere di felicità, se ne va pochi giorni dopo Diego Armando. Come se i grandi dello sport più popolare del pianeta, e dunque intimamente legato alle nostre vite anche fuori dagli stadi, volessero insieme accommiatarsi dal loro pubblico dell’universo.
Sì, dell’universo: “Paolo Rossi” erano parole di leggenda pronunciate persino in Cina. Figurarsi sotto il cielo azzurro sopra Madrid, la sera dell’11 luglio 1982: terzo Mondiale per l’Italia dopo 44 anni. Intere generazioni non avevano ancora vissuto la gioia infinita della vittoria. E che vittoria: battendo i tedeschi in finale dopo che i giocatori dell’Argentina, del Brasile e della Polonia risalivano in disordine e senza speranza i campi di calcio che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Tutti impallonati da Paolo Rossi e da una Nazionale che volava, leggera e incontenibile, sulle ali paterne di Enzo Bearzot.
Ma non fu soltanto sport quella straordinaria impresa di riscatto italiano. Come non ricordare il presidente Pertini, che sventolava la pipa al Bernabeu come noi il Tricolore sulle piazze e le contrade d’Italia? Perché il ribattezzato Pablito anche questo, da allora, ci ha donato: il piacere della bandiera, del canto e dell’orgoglio di sentirsi italiani dopo troppi anni di scena muta. Perfino i politici tremavano all’idea di dire Patria, concetto che, trascinato dal sorriso tranquillo di Pablito, tornava a diventare il sogno meritato e l’abbraccio fraterno di chi arriva, senza l’aiuto di nessuno, in cima al mondo. Patria era il vulcano di riconquistata allegria dopo i lunghi e drammatici anni di piombo. Quell’epoca triste era davvero finita.
L’Italia di Paolo Rossi fu l’emblema della metamorfosi. Gli azzurri superarono il girone per il rotto della cuffia, prima di sconfiggere una dopo l’altra le pretendenti di lusso. Che specchio del Paese: partire sempre male e rischiare di non farcela. Ma, quando tutto sembra perduto, vincere contro ogni pronostico e a tempo quasi scaduto.
Lui stesso e per primo, con quel fisico così poco atletico da anti-divo capitato lì per caso, saliva alle stelle dalle stalle. Lo scandalo scommesse l’aveva tenuto per due anni lontano dalle partite. Per lui fu una dura rinascita anche individuale, quel rinascimento collettivo così inatteso e spettacolare nell’estate spagnola. Rinascimento unico, ma non irripetibile. Identica vicenda di calciatori italiani snobbati e criticati alla vigilia del Mondiale si ripresenterà nell’estate 2006 a Berlino. Si sa come finì l’ennesima odissea del nostro calcio: altro cielo azzurro. Perché è l’eterna storia dell’Italia condannata a soffrire, non solo nel calcio, prima di risorgere. Pablito stesso era da poco uscito dall’inferno della squalifica. E tutti gli preferivano il capocannoniere della serie A, Roberto Pruzzo. Riecco la solita sfida alla Coppi o Bartali, alla Rivera o Mazzola. Ma fu Pablito a portarci in paradiso. E fu Bearzot a credere nel suo talento, infischiandosene del coro. Altra lezione molto casalinga: la solitudine dei numeri primi.
Se oggi piangiamo Paolo Rossi, è perché con lui abbiamo condiviso una storia incantevolmente italiana. Da quella sera di Madrid possiamo non solo rimpiangere, ma ancora e sempre sperare nei migliori anni della nostra vita.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi