Montanelli racconta Mussolini tra luci, ombre e delusioni

Quel figlio del fabbro in realtà non veniva dal popolo. Mussolini aveva un’origine “fra l’artigiano e il piccolo borghese con tutte le scontentezze e i desideri di rivalsa che ad essa sono connessi”.

Fin dalla nascita di Benito in quel di Predappio, Indro Montanelli smonta anche la biografia dell’uomo che per vent’anni diventerà l’autobiografia degli italiani. Nel bene e nel male, come il più grande giornalista del Novecento racconta con la forza della verità, che è la sua verità, ma pure del “novanta per cento degli italiani” dell’epoca. Prima incantati e poi incatenati alla lunga e, alla fine, tragica avventura del “mattatore senza rivali”: il dittatore fra le due guerre.

“Io e il Duce” s’intitola il libro della Rizzoli (a cura di Mimmo Franzinelli) che promette l’impossibile da mantenere, ossia la ripubblicazione di diversi articoli di Montanelli sul fondatore e capo del fascismo. Con Indro, scomparso già da diciassette anni, non si “ripubblica” mai niente: la sua ineguagliabile prosa lo rende sempre inedito agli occhi del lettore. Basta leggerlo, per provare il piacere del suo italiano limpido e bello come una forma d’arte.

Così Montanelli spiega il rapporto quasi ancestrale col fascismo fino agli “anni del consenso”, come Renzo De Felice definiva il periodo dagli storici Patti Lateranensi del 1929 in poi: “Io fui con Mussolini come quasi tutti i giovani della mia generazione (e il quasi è forse di troppo: le eccezioni si conoscono per nome e cognome, tanto erano, appunto eccezionali) fino al 1936, anno dell’impresa d’Abissinia che mi vide entusiasta volontario laggiù”. Per Indro fu la fine della parabola idealistica: “Tornai di laggiù completamente deluso, e l’anno dopo (1937) divorziai dal fascismo, ma non di mia iniziativa. A causa delle mie corrispondenze sulla guerra di Spagna, fui sospeso dal partito (dove non volli più rientrare) ed espulso dall’albo dei giornalisti, il che mi costrinse a cercarmi un lavoro fuori d’Italia, ma mi salvò da qualsiasi complicità morale col fascismo peggiore: quello delle leggi razziali, dell’alleanza col nazismo, e della guerra”. Finirà prigioniero e condannato a morte dai nazisti, salvato dal cardinale Schuster nel 1945.

“Che Mussolini sia stato, per l’Italia, una jattura, vista la catastrofe della disfatta a cui ci ha condotto, nessuna persona di buon senso ormai lo nega”, scrive a proposito di una stele municipale posta e rimossa a Giulino di Mezzegra, per indicare il luogo dove il Duce e Claretta Petacci furono fucilati dai partigiani il 28 aprile 1945. “Ma nessuna persona di buon senso può neanche negare ch’egli sia stato un protagonista della storia d’Italia, di cui ha riempito con la sua personalità un intero ventennio, e che quindi la sua morte segni una data, come la segnano le morti di Stalin, di Hitler, di Napoleone, di Robespierre: tutti uomini che non si possono chiamare benefici e che di catastrofi, di sangue, di stermini ne hanno sulla coscienza molti più di Mussolini”. Ecco come Montanelli rievoca l’unico incontro: “Il Duce mi fece un elogio particolare per un articolo antirazzista che vi avevo pubblicato (sull’”Universale” ndr), e lo concluse con queste parole: “Avete la mia approvazione: il razzismo è roba da biondi!”. Correva l’anno 1932. Sei anni dopo, egli promulgava le leggi razziali”.

Quel “forsennato egocentrico” del quale Montanelli pur definisce “magistrali” gli articoli scritti come direttore, allora socialista, del quotidiano Avanti!, incarna umori e malumori, “un impasto di contraddizioni” dell’identità nazionale. “Sceso dal podio su cui aveva proclamato gl’italiani “un popolo di eroi, di santi, di navigatori” -osserva Montanelli- diceva al suo amico e capufficio stampa Ferretti: “Gl’italiani? Governarli non è difficile. E’ soltanto inutile”, ch’è una delle cose più vere e penetranti, ma anche sfiduciate e disfattiste, che mai si siano dette sul nostro popolo”. E ancora: “Politico astutissimo, non era e non riuscì mai a diventare un vero uomo di Stato”. Si sente la disillusione del risorgimentale che aveva creduto nell’Italia della sua giovinezza: “Io ho dei rancori verso il regime e il suo Duce. Non per i guai che mi hanno procurato, sebbene piuttosto pesanti. Ma per lo sperpero che essi hanno fatto di quel patrimonio di speranze che io e tanti altri giovani della mia generazione ci avevamo investito. Quando mi ritroverò a tuppertù col fascismo sul piano storico, spero che riuscirò a superare questo stato d’animo. Ma lo spero soltanto”.

Pubblicato su Il Messaggero di Roma