Ma i sogni di Martin Luther King non muoiono all’alba

Sono passati sessant’anni dallo storico discorso di Martin Luther King davanti al Lincoln Memorial di Washington e a 250 mila persone in marcia per i diritti civili. Eppure, neanche la nostra società globale e digitale che tutto cancella a velocità supersonica, può dimenticare quella frase indimenticabile, “I have a dream”, ho un sogno, con cui il 28 agosto 1963 il rivoluzionario tranquillo, alla Gandhi, e pastore protestante statunitense scolpiva il grido di dolore di un’America decisa a combattere l’ingiustizia e la discriminazione subite dalla comunità nera.

Il destino ha voluto che, nelle stesse ore di celebrazione di un messaggio pieno di speranza e di poesia, che è l’arma politica più forte (tant’è che quelle parole hanno cambiato il mondo, e non soltanto gli Stati Uniti), l’odio razziale riaffiori in Florida nel modo peggiore. A colpi di una pistola marchiata con una svastica un ventenne bianco è entrato in un negozio per sparare e ammazzare una donna e due uomini neri, prima di uccidersi a sua volta dopo aver rivendicato il diritto all’odio e all’omicidio.

La brutale coincidenza, che peraltro rappresenta solo l’ultimo episodio di una catena di violenze razziste nella patria di Martin Luther King vittima lui stesso, il 4 aprile 1968, del medesimo odio criminale, pone un interrogativo al di là di ogni confine: quel sogno ha vinto o ha perso?

I fatti di cronaca autorizzerebbero al pessimismo: come si può coltivare ancora un così ripugnante risentimento basato sul più spregevole pregiudizio, il colore della pelle?

Ma l’America che oggi piange tre innocenti assassinati dall’odio, e che rimpiange un sogno all’apparenza incompiuto, è la stessa nazione che per due volte di fila ha eletto Barack Obama presidente. A suprema testimonianza che in quel Paese pur pieno di contraddizioni e di violenza nulla è più precluso a nessuno: il sogno di Martin Luther King s’è avverato fin dentro la Casa Bianca. Chi l’avrebbe detto, il 28 agosto 1963?

Nessun colpo di pistola, né oggi né mai, nessun proclama di rancore né in America né nell’Europa alle prese con un’immigrazione senza controlli che incute paura e polemiche (“ingressi regolari in numero ampio, rispetto delle diversità”, ha chiesto non per caso il capo dello Stato, Sergio Mattarella), possono uccidere il senso di quelle importanti e felici parole.

Sessant’anni dopo, i sogni non muoiono all’alba.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi