La contestata autonomia richiesta da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna ha un istruttivo modello: quello dell’Alto Adige. Con quale risultato? Il litigio continuo davanti alla Corte Costituzionale…

C’è già il precedente. L’autonomia che oggi richiedono il Veneto e la Lombardia, e sull’onda l’Emilia-Romagna più le rimanenti regioni del Nord che ne vorranno seguire la navigazione, ha almeno un pregio: non c’è bisogno di indovinare come andrà a finire, perché da quarantasette anni esiste e funziona a pieno ritmo il modello d’ispirazione, ossia l’invidiatissimo meccanismo legislativo e amministrativo in vigore nel Trentino-Alto Adige. Anche se l’approccio è stavolta di natura ordinaria, in confronto all’autonomia invece speciale e costituzionale che il Parlamento accordò nel 1972 a questa privilegiata Regione contigua al Veneto, e che assegnò soprattutto alle Province di Bolzano e di Trento separatamente, l’impostazione è troppo simile per non essere esaminata con cura.

Si parte allo stesso modo, con una serie di importanti materie (scuola, sanità, tutela delle opere artistiche e chi più ne ha, più ne metta), per le quali le regioni invocano, con rispettosa discrezione, competenze esclusive o concorrenti rispetto alle prerogative dello Stato.

In apparenza sono spesso misure di buonsenso, con la promessa di gestirle d’amore e d’accordo con Roma. Peccato però che, sulla base della consolidata esperienza altoatesina e trentina, l’esito di tali in astratto innocue e ragionevoli richieste -far valere il principio di responsabilità: decide e ne risponde al cittadino l’istituzione più vicina sul territorio-, non è quella della “leale collaborazione” fra i ministeri del governo a Roma e l’autonoma Regione, bensì il conflitto permanente fra le parti davanti alla Corte Costituzionale. Perché più la Regione ha, più pretende d’avere. Lo testimoniano da anni le sentenze della Corte sui contenziosi di o contro Bolzano e Trento. Dunque, in quasi mezzo secolo è avvenuto l’esatto contrario di quanto proclamato con candore rispetto alla lontana, sorda e burocratica Capitale d’Italia.

Ma l’elenco dei poteri sollecitati, che sono molti e ben dettagliati, non chiude mai la trattativa con Roma: al contrario, la apre all’infinito. Perché alle competenze che il Parlamento potrà riconoscere, seguiranno norme d’attuazione, come insegna il modello altoatesino. E tali norme saranno fatte dalle immancabili “commissioni paritetiche”, cioè metà rappresentati dello Stato e metà delle Regioni. Più agguerriti e motivati, quest’ultimi, e vincitori annunciati di ogni braccio di ferro.

Ma la Repubblica quali strumenti ha per impedire la disparità di trattamento fra i cittadini fortunati, perché residenti in regioni autonome (in Alto Adige più del 90 per cento delle risorse resta lì), e gli altri costretti solo a sognare l’erba più verde del vicino? Uno solo: il ricorso alla Corte Costituzionale. Ma bisogna impugnare la legge regionale subito -altrimenti il ricorso decade-, e motivarne bene il perché, per evitare il no della Corte: la beffa dopo il danno lamentato.

Tuttavia, il ministero per gli Affari regionali e le autonomie, che è preposto alla preparazione dei ricorsi del governo, spesso diventa Davide contro le Regioni-Golia. Quasi fosse un delitto di lesa maestà autonomistica impugnare una legge regionale mal fatta o prevaricatrice: siamo o non siamo federalisti?, è il mantra automatico per funzionari e giuristi chiamati semplicemente a fare il loro dovere.

L’ultima perla dello sperimentato autonomismo? La Regione Trentino-Alto Adige aveva istituito un nuovo Comune chiamandolo solo in ladino. “San Giovanni di Fassa-Sèn Jan”, è dovuta intervenire e correggere col bilinguismo la Corte Costituzionale, ricordando che la madrelingua dell’Italia è quella di Dante Alighieri.

Gli autonomisti se l’erano proprio dimenticato.

Pubblicato su Il Messaggero di Roma