Ius Italiae: perché dare la cittadinanza ai figli nati o cresciuti nel nostro Paese da genitori stranieri è un importante atto patriottico

Se l’Europa ha il diritto di decidere chi entra a casa sua, come ha ricordato la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, l’Italia ha il dovere di decidere come considerare i figli di genitori stranieri che a casa sono già entrati da tempo. E che qui vivono in modo leale e legale. Giovani cittadini che da anni crescono e si formano nelle scuole, da poco riaperte, della Repubblica italiana. L’esatto contrario dell’immigrazione illegale e senza controllo nel Mediterraneo, se non quello sempre più evidente e crudele degli scafisti.

Qual è, dunque, l’interesse nazionale? Continuare a negare la cittadinanza a più di 800 mila alunni che parlano italiano, si vestono con gusto, mangiano con gioia la carbonara, tifano per le squadre di serie A, ma hanno solo il difetto -si fa per dire- d’essere figli di non italiani? Oppure certificare l’evidenza, decretando che chi nasce o cresce in Italia a prescindere dalla provenienza di mamma e papà, avrà la fortuna di vivere in un grande Paese? Un Paese che sa riconoscere già oggi chi canta l’inno di Mameli, e che domani, proprio perché ha visto la sua identità consacrata dallo Stato, si sentirà ancor più italiano degli stessi italiani.

Non è solo una scelta di giustizia: è soprattutto un atto patriottico. E’ un bene immenso per l’Italia, alle prese anche con una grave crisi demografica, che i nostri più piccoli e giovani connazionali di fatto, ma non di diritto, possano dire “civis italicus sum”, sono cittadino italiano. Proprio come il “civis romanus” di antica memoria, a cui anelavano gli stranieri. E quella civiltà capace di aprirsi al mondo persino dopo averlo conquistato, lo concedeva con sapienza.

Lo ius soli, lo ius culturae o lo ius scholae -lo dicono le stesse espressioni che suonano in latino, non in inglese-, sono parte integrante e feconda della nostra anima, cultura e tradizione. E allora non c’è equivoco peggiore nel credere che questa sia una battaglia “ideologica” o “di sinistra”. E’, invece, una battaglia civica e civile senza etichette, che nessuno ha il diritto di strumentalizzare. E che perciò può promuovere senza titubanze né complessi anche la destra, impugnando la sfida dello “ius soli” nelle forme di buonsenso che il legislatore saprà trovare.

Può essere il governo-Meloni a fare la prima mossa, proprio per sottolinearne l’aspetto istituzionale e non di schieramento: proporre un nuovo e ponderato diritto all’italianità, lo “ius Italiae”, al Parlamento, rivolto alle giovani e integrate generazioni di “italiani senza Patria”.

Ius Italiae non al posto, ma accanto all’intoccabile ius sanguinis, altro faro di civiltà: è italiano, se lo desidera e rivendica, chiunque discenda da italiani. Anche se vive al Polo Nord e non sa -ancora-, una parola nella lingua di Dante. Ma Italia è amore, e l’amore non si confina fra il Brennero e Lampedusa. La bellezza della lingua italiana sboccerà da sé, in chi già si porta il Tricolore nel cuore.

Eppure, le ragazze e i ragazzi d’Italia figli di stranieri anche quest’ostacolo hanno superato: parlano l’italiano e frequentano la nostra storia. Condividono i principi della Costituzione e convivono nella Penisola.
In ogni campo, ma quello più visibile è lo sport azzurro, si vedono esempi straordinari di “campioni” italianissimi con genitori non italiani.

I figli di stranieri nelle nostre scuole sono tra noi, con noi e come noi. Regolarizzarli, significa investire nella legalità, nel senso dello Stato, nella storia sempre universale (Roma antica, Rinascimento, Risorgimento) della Nazione.

Non dobbiamo e non possiamo avere paura di quelli che sono già fratelli e sorelle d’Italia.

Pubblicato sul quotidiano Alto Adige