Il disastro del ponte Morandi e il pendolo degli eccessi: dal liberismo allo statalismo

Può darsi che il “secolo breve”, come uno storico britannico definì il Novecento, ci abbia lasciato in eredità anche una memoria corta. Ma non così corta, almeno in Italia, da dimenticare la rivoluzione politica ed economica che imperversava negli anni Ottanta, quando anche i comunisti -allora esistevano ancora-, non potevano non dirsi liberali. E lo Stato dismetteva ogni sua cosa, gioiello o carrozzone che fosse, per darlo in gestione ai privati. “Statalista” era un insulto, e il concetto di “pubblico” veniva associato, spesso, peraltro, a ragione, all’inefficienza, all’incompetenza, all’inconcludenza tipica di chi non doveva misurarsi né con la concorrenza né con il mercato. Apriti Sesamo, e furono liberalizzazioni per tutti.

Ma, come tutti gli eccessi, anche quell’ondata di incoraggianti novità e di buone intuizioni mescolava il buono al cattivo. Mescolava il ruolo di uno Stato che lascia fare agli altri, senza però rinunciare alla funzione istituzionale del controllo, con pasticci indigesti tipo la Cassa del Mezzogiorno. Un ente pubblico che doveva finanziare iniziative industriali nel Sud per metterlo al passo del Nord produttivo. E che, col suo assistenzialismo a fondo perduto e a pioggia, la sua politicizzazione anche a dispetto del più elementare rispetto della legalità e le sue cattedrali nel deserto, ha invece contribuito ad allontanarli ancor più.

Purtroppo le lezioni del pur recente passato insegnano poco, se oggi, sull’onda di una giustificata indignazione per l’inconcepibile disastro del ponte Morandi a Genova, buona parte del governo sta ingranando l’indietro tutta: rimettiamo lo Stato a gestire le grandi opere, visto quel che hanno combinato i privati. E si riparla di “nazionalizzazioni”. Guai a dare del “liberista”, oggi. Ma la politica che passa da un’ubriacatura all’altra finisce solo per barcollare due volte.

Lo Stato ha dato ripetute prove che la gestione non è il suo forte. Il suo forte è il diritto-dovere di sorvegliare, cioè controllare con cognizione di causa e in tempi rapidi, l’attività dei privati che svolgono un servizio pubblico. Il cittadino deve avere la garanzia che lo Stato siamo noi: sicurezza per tutti. Ma il cittadino sa anche che, salvo encomiabili eccezioni, non c’è partita quando un privato s’impegna a gestire al meglio, e sotto i riflettori pubblici ben puntati, la sfida che gli compete.

A ciascuno il suo.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi