Grandi opere, l’unico errore da non commettere: temporeggiare

Arriva almeno una buona notizia dal maltempo che ha flagellato l’Italia: abbiamo capito il valore di una “grande opera”. Si deve, infatti, all’apertura della galleria Adige-Garda, dieci chilometri d’ingegno progettati e costruiti a partire dal 1939 e completati, causa guerra mondiale, nel 1959, se Verona e ampi dintorni nel Veneto e in Trentino non sono stati sommersi dalla piena del fiume. Quante vite salvate, quanti danni impediti? Nessuno lo sa. Ma è proprio questa la lungimiranza di chi ha previsto uno scolmatore, cioè un’opera idraulica per smaltire le acque, quando splendeva il sole e non cadeva una goccia di pioggia: prevenire in maniera avveduta le nefaste conseguenze delle ricorrenti alluvioni. Impedirci di contare morti e feriti, e di censire abitazioni distrutte. Dare un senso alla vita delle persone e all’esistenza dei luoghi prima che la furia incontenibile di Madre Natura s’accanisca sugli impotenti amministratori e cittadini. La grande opera quale ultimo e intelligente baluardo.

Ma la grande opera è sempre il frutto di una certa idea dell’Italia sul domani. Avere una visione non solo a beneficio dei contemporanei, ma soprattutto delle generazioni che verranno, oltre che del territorio da tramandare ai nostri figli almeno nelle condizioni in cui l’abbiamo ereditato dai nostri padri: sperabilmente più bello, curato e risanato.

Dunque, opere quali il tunnel del Brennero, la Tav Torino-Lione, la stessa Pedemontana sono state pensate con uno spirito analogo: dare più ampio respiro ai viventi, alleggerendo e migliorando le loro vie della comunicazione. Ma con lo sguardo al di là delle Alpi e verso il mondo europeo che cambia. Tant’è che sono opere elaborate e finanziate d’intesa con altri Paesi -Francia, Austria, Germania- e persino con l’Unione europea.

Non sono capricci elettorali: il destino di simili costruzioni a lungo tempo è di nascere con un governo e di finire con un altro.

Per questo l’approccio dei Cinque Stelle sul tema, che è più o meno quello di sospendere il giudizio e, se possibile, ogni decisione presa per riesaminare tutto ciò che è già stato più volte esaminato (carte, costi, tragitti) da maggioranze opposte fra loro, rischia d’essere non una novità del cambiamento, ma del temporeggiare.

Se avessero ragionato così negli anni Trenta, con l’amletico “faccio o non faccio lo scolmatore?”, oggi Verona sarebbe a mollo.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi