Gigi Riva, il numero 11 che in realtà era il numero 1 nella Nazionale e nella vita

E’ stato il numero 1 della Nazionale, anche se indossava la maglietta numero 11. Nessuno fra gli Azzurri ha fatto più gol di lui, ben 35 in sole 43 partite. Un fuoriclasse di classe in campo e nella vita, che ha fatto sognare l’Italia e portato il Cagliari in cima alla serie A.

Accadeva più di mezzo secolo fa, eppure la leggenda di Gigi Riva sopravviveva alla sua stessa e riservata esistenza. Ora che “rombo di tuono” non c’è più -così l’aveva battezzato con tocco di penna Gianni Brera per la potenza del tiro-, ora che Gigi Riva s’è spento a 79 anni nell’ospedale sardo dov’era ricoverato per un infarto che pareva aver superato, gli italiani aprono l’album dei ricordi. E riscoprono che con lui se n’è andato il campione della loro fanciullezza o giovinezza, e l’uomo libero e umile che tale è rimasto sempre.

“Un monumento nazionale”, dicono ora, all’unisono, le massime autorità sportive e politiche, dalla Federcalcio a Palazzo Chigi. Ma quanto è difficile scolpire un mito. Un mito d’altri tempi, senza tatuaggi né agenti, capace di rifiutare offerte miliardarie (allora c’era la lira) per amor di bandiera, cioè per non tradire la squadra del cuore in cui militava, facendo la felicità della sua gente e dei bambini che l’adoravano.

Eppure, la vita era stata ingiusta con un calciatore così grande e generoso. Aveva perso il padre a 9 anni e la madre a 16. Raccontava di avere un solo rimpianto. Che non era, come si poteva pensare, il Mondiale perso nel 1970 in Messico col Brasile (dopo l’epico 4 a 3 infilato alla Germania, e con lui stesso fra i protagonisti della nostra gioia). Il suo cruccio era che i genitori non avessero visto il successo impetuoso di quel figlio del vento. La famiglia, dunque, anche quella mancata e di povera origine veniva prima ancora di qualsivoglia e ricca impresa sportiva.

Questo è un uomo. Di poche parole, frutto dell’intraprendente aria che si respira in Lombardia -da lì proveniva-, e della sobrietà sarda che l’ha plasmato. “Era impossibile non essergli amico”, dice di lui il quasi coetaneo e già portiere della Juve e della Nazionale Dino Zoff, un altro mito del silenzio, perché quelle generazioni di calciatori s’esprimevano con la bellezza e la lealtà del gioco, con l’attacco a testa alta, che per Gigi Riva era il modo migliore per difendere la squadra. Altro che catenaccio: sempre avanti, come un bersagliere, per segnare la rete della vittoria.

Perché Gigi Riva non era solo fortissimo: era un vincente. Ma era anche un calciatore affascinante per quella malinconia innata e percepita. Una malinconia che così male, cioè bene, si coniugava con la temerarietà del suo calcio imperioso. Un imperatore bello e triste, e forse ancor più amato per questo.

Tutto il resto viene dopo, compreso l’Europeo che con lui abbiamo vinto nel 1968.

La terrà gli sarà certamente lieve, addolcita dalle nostre lacrime e dalla gloria che si riserva agli eroi.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova