Addio a Piero Ostellino, giornalista liberale delle cose viste e pensate

Non sono molti i giornalisti che, come l’appena scomparso, ad ottantadue anni, Piero Ostellino, amano stare dalla parte più scomoda e se ne vantano. E tale rivendicazione vogliono scolpire nero su bianco con un libro (“Cose viste e pensate”, Rizzoli editore) scritto all’apice della carriera, cioè quando si è direttori del principale quotidiano in Italia: un direttore controcorrente alla guida del Corriere della Sera fra il 1984 e 1987, che mai rinunciò alla rara convinzione, in un ambiente intellettuale e culturale che nel nostro Paese è portato al conformismo e alla sudditanza, ciascuno appartenendo a una sua parrocchia, di teorizzare, invece, una sorta di rivoluzionario e solitario “perché non possiamo non dirci liberali”.

Ostellino liberale lo fu sempre, perfino nella distinzione quasi accademica che individuava nel mestiere del giornalismo tra quelli che sanno raccontare i fatti (“cose viste”) e quelli che sanno riflettere e interpretarli (“cose pensate”). E i fatti comunque separati non dalle opinioni, ma dai pregiudizi.

Di questa vena polemica per natura, oltre che per una conoscenza non superficiale del pensiero politico e filosofico europeo, Ostellino, nato a Venezia il 9 ottobre 1935, diede già prova quando, nemmeno trentenne, fondò con altri a Torino il Centro di ricerca Luigi Einaudi nel 1963. E poi la rivista che ad esso faceva riferimento, “Biblioteca della Libertà”. Una libertà come parametro non negoziabile nella narrazione e nell’approfondimento, che proprio nello studio e nel confronto delle idee doveva avere il suo inestirpabile fondamento. La libertà come valore cardine dell’Occidente, a prescindere dalle contestazioni -a cominciare dal quella Sessantottina-, e senza mai scendere a patti con le ideologie. Forse in questo Ostellino fu anche vaccinato dall’esperienza professionale che dal 1973 avrebbe fatto come corrispondente del Corriere nella Mosca sovietica, dopo sette anni di gavetta a Milano.

Nel ’79 diventa corrispondente a Pechino nell’epoca interessantissima del dopo-Mao, e con la stessa lucidità di approccio: tentare prima di tutto di capire, per poter poi spiegare ai lettori. Altri due libri (“Vivere in Russia” e “Vivere in Cina”) fotografano il periodo vissuto intensamente e senza paraocchi, secondo un’impostazione, appunto e il più possibile, “liberale”. “In coscienza credo di non aver mai scritto, nel corso di tutta la mia vita professionale, delle pure e semplici banalità tanto per scrivere”, racconterà di se stesso. Come dire: chi ha la stoffa, non ha bisogno di ostentarla.

Dopo l’estero e la direzione Ostellino fu a lungo commentatore con una rubrica che si chiamava, quasi autobiograficamente, “Il dubbio”. Dubbio sull’eccessiva presenza di uno Stato poco efficiente e allo stesso tempo dirigista nella società. Dubbio sugli eccessi di giustizialismo e di politicizzazione nell’ambito delle regole e delle garanzie processuali. Dubbio, e molta ironia, su quei politici che a parole si dichiaravano liberali, ma negli atti legislativi o nei comportamenti dimostravano il contrario.

Anche dalle colonne del “Giornale”, l’ultima sua scelta professionale dal 2015, l’uomo delle molte cose viste e delle ancor più pensate continuava a chiedere più attenzione ai diritti della persona. Una passione solamente ne contraddiceva lo spirito del “mai col più forte”: la fede juventina. Ma al cuore e al calcio non si comanda.

Pubblicato su Il Messaggero di Roma