Cinquant’anni di solitudine: l’esilio cubano a Miami

La fine dell’embargo non sarà la fine del dolore. A Miami, neanche quattrocento chilometri di mare e di squali da L’Avana, vive l’esilio cubano da cinque generazioni. Il tempo di capire che la Rivoluzione del 1 gennaio 1959 non avrebbe liberato Cuba, ma semplicemente sostituito un odiato dittatore con un altro -dal deposto Fulgencio, al secolo Batista, al nuovo arrivato Fidel, di cognome Castro-, che già partivano verso l’America i primi compagni delusi dopo aver rischiato la vita per la libertà così rapidamente tradita. Cinquantasei anni dopo, i cubani negli Usa sono all’incirca due milioni, di cui la metà è nata sul suolo della Florida. Dunque, quasi un cubano su cinque, moltissimi, in raffronto agli oltre undici milioni d’abitanti nell’isola. Il loro ruolo è importante (contribuiscono a eleggere i presidenti degli Usa), la loro reazione a metà fra la rabbia e lo sconcerto. “Il peggior presidente di sempre ha concesso alla dittatura cubana tutto ciò che voleva, senza ottenere nulla in cambio”, ha detto di Barack Obama uno dei candidabili alle prossime presidenziali, il senatore repubblicano Marco Rubio, che da figlio di esuli ha il polso della sua gente. L’avvenuta liberazione del “prigioniero” americano Alan Gross nell’isola, poco consola i cubani delle due patrie cubana e ormai anche americana, che si battono -come Rubio ricorda-, perché finisca l’anomalia dell’America latina: unica nazione del continente che non conosce la democrazia. E dove chi rappresenta gli esiliati a Miami, o dà voce ai dissidenti, viene spesso irriso e insultato dal regime.

Davanti al caffè Versailles, che sulla strada numero 8 costituisce da sempre il ritrovo della nostalgia e della speranza, cioè degli esuli, dopo l’annuncio dell’addio al mezzo secolo d’embargo si leggevano cartelli durissimi. “Sos per Cuba, no agli affari con gli assassini comunisti”, riferito alla dinastia dei Castro, Fidel e Raúl, che oggi governa per interposto fratello. Pochi i presenti che invece riconoscevano, soddisfatti o almeno speranzosi, che la novità potrebbe portare a un cambiamento, “perché l’embargo non è servito a niente”.

Ma il giornale in lingua spagnola El Nuevo Herald già riporta la fotografia di madri in lacrime. A cominciare da Miriam de la Peña, il cui figlio ventiquattrenne e pilota, Mario, venne abbattuto il 24 febbraio 1996 dall’aviazione militare cubana, mentre volava in acque internazionali per salvare i balseros, ossia cubani che fuggivano dall’isola su zattere improvvisate. La “colpa” di Mario? Aver in precedenza lanciato dal cielo migliaia di volantini sull’Avana con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Nello spregio d’ogni legge un Mig 29 di fabbricazione russa abbatté quello e un altro aeroplanino durante la missione umanitaria del ragazzo. Quattro persone uccise. Fidel se ne assunse la responsabilità con un’intervista a Time Magazine l’11 marzo 1996. Un missile firmato.

Piange, ora, mamma Miriam, nel vedere che uno dei condannati nell’ambito di quel delitto contro l’umanità (pena inflitta: due ergastoli, e in America), fa parte dello scambio fra prigionieri.

Solo gli esiliati hanno il conto dei fucilati -almeno quindicimila dall’inizio della Rivoluzione tradita-, degli imprigionati ancora oggi, degli affamati sempre, dall’ultima dittatura in America latina. La memoria dell’esilio, compreso quello dell’ala più dialogante, che richiede di poter almeno partecipare alle trattative del disgelo. Per chi ha dovuto abbandonare la famiglia e la patria, la libertà di Cuba è l’unico scambio possibile col proprio cuore ferito.

Pubblicato su Il Messaggero di Roma