Si dirà che già il nome, “Storie Maledette”, indicava con chiarezza che il pubblico era avvertito dei racconti previsti nel programma. Si dirà anche che i telespettatori, minorenni compresi, sono da tempo vaccinati, perciò avvezzi a non sorprendersi più di nulla: basta un giretto in internet per trovare ben di peggio. E si dirà, ancora, che la libertà d’espressione e di visione si esercita soprattutto sui temi che scottano. Troppo facile informare sull’ultimo gol di Icardi, che non segnava da un mese, o sull’ultima gaffe del principe Carlo. Ma quando il servizio pubblico trasmette in prima serata l’intervista a un condannato a vent’anni di carcere perché la magistratura d’appello (non il bar-sport o la rivista di cronaca rosa), l’ha riconosciuto colpevole come mandante dell’aggressione con l’acido che ha sfigurato la sua ex fidanzata, il tipo di trasmissione, la maturità del pubblico e la libertà di tutti noi c’entrano poco: sta, invece, andando in onda il mondo alla rovescia dell’imputato che “dichiara” non in tribunale, ma in telecamera. Del telespettatore che ascolta non le ragioni della vittima, ma il torto di chi le ha voluto orribilmente male. Sta andando in onda la bieca corsa all’ascolto, grazie all’inevitabile polemica pubblica che sarebbe scoppiata e che è infatti scoppiata, a danno evidente della comprensione dei gravissimi fatti.
Si parla, naturalmente, dell’intervista di Franca Leosini (Rai 3) a Luca Varani appena archiviata. Ma il commento migliore l’ha fatto chi non c’era, l’ha fatto Lucia Annibali, la donna sfregiata che passa con dolore e con onore da un’operazione chirurgica all’altra. E che s’è ben guardata di guardare quel piccolo schermo, troppo piccolo per lei: “La verità è una sola e non può essere riscritta da un condannato o da una trasmissione tv”.
A conti fatti, e quelli dell’ascolto sono stati deludenti perché i telespettatori sono più svegli di quanto si creda, l’interrogativo è semplice: che bisogno c’era? Quale clamorosa novità gli italiani avrebbero mai potuto apprendere dal mondo alla rovescia che tutto spettacolarizza e banalizza, dando voce a chi nei processi si difende soprattutto coi silenzi? Perché far salire la versione di quell’uomo sul palcoscenico delle tre “i” -informare, intrattenere, istruire-, la missione che la Rai s’è data da sempre? La tv che racconta può fare a meno di qualunque cosa, ma non del buonsenso.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi