2004
Se n’è andato un pomeriggio di trent’anni fa, e di anni ne aveva tredici. L’hanno visto che prendeva l’aereo, uno degli ultimi voli Alitalia, compagnia che di lì a poco non avrebbe più fatto tappa a Montevideo: se non tornava più lui, non tornava più neanche lei.
L’ultima notte da uruguaiano l’ha trascorsa vagando per la città, e lasciando queste parole sul diario: “A mezzanotte gli alberi mi vigilano, schierati in fila e armati solo di verde. Forse dormono anche loro”.
Ha guardato da fuori la sua scuola e lo stadio che frequentava di domenica. Ha visto passare il 121, l’autobus che prendeva ogni giorno: è passato una, due, tre volte. Forse era un modo per salutarsi. Lui camminava e capiva. Capiva che a tredici anni è difficile dire addio per sempre.
Il giorno dopo è salito sull’aereo senza più voltarsi indietro. Voleva ricordare tutto e perciò non voleva guardare più niente. Alle cinque del pomeriggio l’aereo s’è alzato e lui è stato inghiottito dal cielo.
Per gli amici non c’erano dubbi: prima o poi lo rivedremo, si dicevano e dicevano del loro vicino di casa e compagno di scacchi e di pallone. Sapevano che viveva di nuova vita in Italia. Ma sapevano anche che non si va via per sempre. Forse non canta, Gardel, che “il viandante che fugge, presto o tardi ferma il suo andare”?
Un giorno, molti anni dopo, è tornato. E’ andato a rivedere la sua scuola e ha risalito, piano, i gradini dello stadio, di domenica. Ha visto passare il 121, lungo il percorso che non era cambiato. Niente era cambiato. Camminava e di nuovo capiva. Capiva che adesso era difficile dire arrivederci.
Era tornato o non era mai partito? “A volte mi sveglio e sento la mia terra chiamarmi, gelosa di sapermi tanto lontano. Ascolto senza replicare”. Sul diario ha aggiunto soltanto queste parole, prima di chiuderlo per sempre.
Se il mondo finisce qui, Ideazione Editrice, Roma, 2004 – Per saperne di più scrivimi qui