L’unica riforma necessaria per la cara e vecchia Rai: spoliticizzarla, sessantun anni dopo

Anche il nome, che ancora antepone la vecchia e cara radio alla prorompente televisione -“Radiotelevisione italiana”: ma per tutti semplicemente “la Rai”-, testimonia che ben sessantuno anni sono passati dal giorno della prima trasmissione col piccolo schermo nel 1954. Tra parabole e digitale oggi il mondo arriva nelle nostre case attraverso centinaia di canali, che hanno reso meno dominante il pur resistente duopolio con Mediaset. Ma ormai persino la divisione tra pubblico e privato appare ardua, e non solo perché i programmi e i notiziari si somigliano, così tanto da essere interscambiabili. E infatti idee e conduttori transitano da una parte all’altra come i calciatori fra le squadre: le identità e l’amore per la maglietta si sono di gran lunga affievoliti. Qui telecomando io, è la consolazione per chi guarda.

Tuttavia, la Rai resta uno dei cinque grandi gruppi televisivi in Europa. E’ la principale industria culturale dell’Italia, oltre che l’unica a diffondere la lingua italiana nel mondo. E’ un luogo di eccellenza, se solo funzionasse in libertà con le sue straordinarie potenzialità. La Rai è ancora “mamma Rai”, ma acciaccata e tremebonda, poco propensa a farsi valere come in passato e, soprattutto, bloccata e umiliata dalla politica. Forse è l’ultima azienda pubblica che paghi così salato l’inaccettabile pedaggio tra l’avere buoni professionisti e un pubblico “generalista” tuttora ampio e affezionato e il dover dare spazio, interno ed esterno, a qualunque vacuità dei partiti. I tg sono i soli d’Europa a presentare ancora il cosiddetto pastone, cioè l’inutile e incomprensibile carrellata di politici che dicono e si contraddicono su tutto. Non già un’impresa al servizio degli italiani, ma troppo spesso in balia della politica: e tutti, a parole, giurano di volerla cambiare.

Dopo tanti annunci, ora un po’ di cambiamento s’avvicina. Il governo ha approvato un disegno di legge per rinnovare la Rai, e per farlo non per decreto, ma discutendo alle Camere. Il testo approvato dal Consiglio dei ministri riduce da 9 a 7 i membri del Consiglio d’amministrazione, dei quali quattro espressi dal Parlamento. E prevede un amministratore delegato -delegato dal ministero dell’Economia, ossia dal governo- con pieni poteri. E’ chiaro e ragionevole l’intento di snellire, di potenziare, di riorganizzare. Ma guai se si passasse dalla padella alla brace, cioè dall’insopportabile controllo dei partiti a quello asfissiante del governo. Libera Rai in libero Stato: bastano cinque parole per la svolta necessaria.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi