La vera anima di Trieste, dove i sogni non muoiono mai all’alba

L’anima di una città di frontiera vive sempre di malinconia. Ma nel caso di Trieste, il capoluogo più incompreso del profondo Nord, l’inquieto sentimento della nostalgia non poggia sul pur ricco passato, ma sul futuro che non arriva.

E’ come se la rivalità con Venezia l’avesse retrocessa nella considerazione del mondo. Eppure, il suo porto rappresenta da secoli un ponte spalancato tra l’Europa di mezzo -come si chiama la tanto citata Mitteleuropa- e il Mediterraneo. Trieste è universale o non è. “La mia anima è a Trieste”, diceva James Joyce. Un’anima tormentata, scontrosa, virulenta e tuttavia infinita come il mare che l’accompagna e la bora che la scuote, quasi a voler ricordare che per Trieste è impossibile arrendersi. Arrendersi anche a quanti sottovalutano non la sua bellezza unica, che nei caffè trova riparo letterario, ma il suo amore per l’Italia, che è la poesia più grande. Come succede alla gente di confine con tante storie alle spalle, e lingue che s’incrociano, e popoli che s’incontrano, e destini che si inseguono.

Ecco, Trieste la sua Patria non se l’è trovata cucita addosso, ma se l’è conquistata col sacrificio dei figli migliori. “Trento e Trieste”, evocavano le vecchie generazioni per ricordare, alla vigilia della Grande Guerra, le terre da liberare dall’invasore. Trieste si liberò non una, bensì due volte. La prima dalla lunga sottomissione austriaca di Franz Joseph, che non fu solo l’imperatore innamorato di Sissi né il romantico ballerino del valzer, come certa storiografia cerca di tramandare. Contando molto sulla smemoratezza di quegli italiani ancora affascinati dai film sulla bella e triste imperatrice  (oltre che dall’indiscutibile bontà della torta Sacher). Ma l’incanto di Vienna ha poco da spartire con la realtà dei popoli oppressi a fine Ottocento.

La seconda liberazione di Trieste è stata dalle mire annessionistiche della Jugoslavia di Tito. “Le ragazze di Trieste cantan tutte con ardore, o Italia o Italia del mio cuore, tu ci vieni a liberar”, diceva la popolare canzone che, col 4 novembre 1954 (l’evocativo 4 novembre della Vittoria nella Grande Guerra, tanto per capire di che pasta erano e sono i triestini) suggellava il definitivo “ritorno” alla madrepatria. Due conflitti mondiali i suoi abitanti avevano tragicamente attraversato, ma sempre con una parola sola: Italia.

Com’è possibile, allora, che una città così nazionale e internazionale, capace di un nuovo e aperto dialogo con la vicina Slovenia e con tutto l’Est, sia oggi in preda a proteste inconcepibili e delitti inspiegabili? Come può la costa “scogliosa, ventosa, selvatica” che Piovene amava percorrere, fare di questi tempi notizia per i sit-in dei portuali o le ammucchiate dei No Vax? Come può “la mia città che in ogni parte è viva” -così scriveva Saba-, essere finita in questi mesi sulle prime pagine per il giallo di Lilly, la donna scomparsa nel nulla e ritrovata morta in un sacco? O per gli spari in pieno centro dopo una lite da regolamento di conti fra gruppi di nazionalità straniera al bar, con feriti, fermati e dieci minuti di terrore per tutti? Fatti che hanno lasciano allibiti gli stessi triestini e residenti d’ogni parte d’Europa.

Cosa è successo, dunque, per trasformare non certo l’orgogliosa città dall’orizzonte senza pari e dalla grandiosa piazza ai piedi del colle di San Giusto (che s’intitola, guarda caso, Piazza Unità d’Italia), ma la percezione che si ha, altrove, di Lei?

Forse è successo che troppo a lungo ci siamo addormentati e dimenticati di quant’è bella e importante Trieste per la nostra storia: e la cronaca ci ha risvegliati di colpo, increduli. Forse è successo che un luogo così aperto all’universo abbia fatto da naturale richiamo per qualsivoglia protesta. O forse è solo il frutto della globalità: persino un posto così evocativo, e fiero, e solitario, non sfugge alle insidie della modernità.

Storia avvincente e cronaca grigia o nera talvolta si mescolano. Ma guai a confonderle: significherebbe non conoscere la vita autentica di Trieste, dove i sogni non muoiono mai all’alba.

Pubblicato su Il Messaggero di Roma