La guerra dei cognomi e i diritti per dispetto

C’era una volta la bella battaglia per i diritti. In principio fu per riaffermare il divorzio in Italia. Con lo storico referendum del 12 e 13 maggio 1974 -prima volta che si ricorreva a tale istituto della Repubblica previsto in Costituzione-, il 59,26 del popolo sovrano (contro il 40,74) convalidò la legge che il Parlamento aveva introdotto.

In ballo c’era un diritto civile che oggi nessuno contesterebbe più, ma che allora spaccò la società come una mela a metà: il centrodestra dell’epoca (“clerico-fascisti”, fu battezzato dagli avversari il fronte abrogazionista imperniato sulla Dc e sul Msi) contro il centrosinistra (“comunisti”, il pan per focaccia rivolto allo schieramento dominato dal Pci).

Ma l’esito dello scontro epico non portò né al fascismo né al comunismo: semplicemente consentì a chi si sposava o s’era sposato d’avere la possibilità di divorziare.

Da quel dì e per molti, importanti diritti la società e i partiti si sono battuti e contrapposti. Impossibile non fare riferimento a Marco Pannella, il leader radicale che al diritto e allo Stato di diritto dedicò l’intera sua vita. A costo di passare per un provocatore, e non gli dispiaceva.

Tutti gli autentici riformatori, a differenza dei rivoluzionari che non combinano mai niente, se non disastri, sono provocatori del loro tempo. Perché anticipano, sanno guardare lontano in un mondo miope.

Purtroppo negli ultimi anni la battaglia per i diritti è diventata una caricatura. L’ultima barzelletta è di un annunciato disegno di legge (probabilmente solo annunciato) da parte del senatore Dario Franceschini. Che non è un politico qualsiasi. Più volte ministro, e pure del rilevante dicastero della Cultura, già leader del Pd, una lunga carriera da democristiano dietro le spalle. Ebbene, Franceschini vuole fargliela pagare alla Storia. Siccome da secoli in tutto l’universo si tramandava il cognome paterno a costo di ignorare quello materno, lui intende “risarcire le donne” -così ha detto-, introducendo per legge l’obbligo di dare ai figli il solo cognome materno. Peraltro il cognome materno è a sua volta e a tutt’oggi il cognome trasmesso da un padre. E comunque: che male c’è a tramandare il cognome di padri, nonni e trisavoli?

Di quest’idea stravagante di Franceschini stupiscono tre cose. Nessuno come lui, legislatore, dovrebbe sapere che la Corte Costituzionale ha già in concreto introdotto il cognome materno accanto al paterno, cassando proprio quella parte del codice civile che prevedeva il solo cognome del padre. Dunque, se è incostituzionale il solo papà, altrettanto incostituzionale sarebbe la sola mamma. Elementare, Watson.

Sorprende, inoltre, la logica postdatata e vendicativa. Poiché per secoli le società che ci hanno preceduto hanno preferito, anagraficamente parlando, il nome del padre a quello della madre, noi gliela faremo pagare alle incolpevoli generazioni future di padri che, all’incontrario del passato, concordano pienamente sulla parità familiare tra uomo e donna a suon di cognomi. Cioè l’unica generazione della Storia, l’attuale, in cui i padri si sono dimostrati aperti sul tema, dovrebbe autoflagellarsi per colpe non sue del mondo antecedente. Infine colpisce che questa trovata, anziché essere liquidata come una delle tante stramberie dei politici, pure di quelli più navigati, venga condivisa da settori minoritari, ma rumorosi a sinistra.

Del resto, non succede già che nelle scuole insegnanti e dirigenti scolastici ricorrano nelle comunicazioni scritte a schwa e asterischi inesistenti nella lingua italiana, pur di compiacere demagogicamente “tutte e tutti”?

Ma c’era bisogno dell’intervento dell’Accademia della Crusca e di una circolare del ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, per spiegare a costoro che l’italiano non si aziona come una fisarmonica della loro ideologia? Che la scuola è di tutti, non una palestra per elucubrazioni autoreferenziali di particolare gravità, se e quando portano la firma di docenti e presidi che, pur di farsi belli tra loro e per la loro tribù ideologica, se ne infischiano delle regole grammaticali, di sintassi e ortografia della bella e ricca lingua italiana?

La realtà è che le sparate per uccidere il cognome paterno o violentare la lingua italiana trovano terreno in quella sinistra marginale, ma piena di prosopopea, che ha perso la bussola dei diritti veri, sociali e civili, un tempo impugnati. Per abbracciare, invece, la cultura della cancellazione, sventolando i diritti non per rispetto, ma per dispetto.

E confidando nel silenzio, per quieto vivere, della grande maggioranza dei cittadini (e degli insegnanti) che non condividono affatto gli atti d’imperio e il nuovo conformismo contro i padri né contro la lingua di padre Dante.

Prossima tappa? Proviamo a indovinarla: cancellare l’autoritario e patriarcale “in nome del padre” dalle preghiere. “In nome della madre” suonerebbe meglio.

C’è poco da ridere: prima o poi qualcuno ci propinerà la sua nuova predica.

Pubblicato sul quotidiano Alto Adige