Giulia, come finisce il sogno della ragazza che doveva laurearsi

Poco prima di mezzogiorno muoiono anche i sogni in un canalone vicino al lago di Barcis in provincia di Pordenone, dov’è ieri stato ritrovato il corpo inerme di Giulia Cecchettin. I sogni di un miracolo, per la verità, perché già la violenta ricostruzione dei fatti induceva a temere il peggio.

L’amara realtà spegne per sempre lo sperato ritorno della ragazza che doveva laurearsi, e della quale un testimone aveva udito la richiesta d’aiuto, mentre veniva caricata con la forza in un’auto condotta, secondo le ipotesi degli inquirenti, proprio dal suo ex fidanzato Filippo Turetta. Spariti per giorni nel nulla, a partire dalla notte maledetta di sabato 11 novembre. E ora, nell’ora della tragica scoperta e delle lacrime, gli appelli delle rispettive famiglie dicono tutto.

“E’ stato il vostro bravo ragazzo”, accusa con rabbia e dolore la sorella della povera Giulia. “Filippo, consegnati alla polizia”, lo implorano i genitori, seguendo anche il saggio consiglio del Procuratore della Repubblica a Venezia, Bruno Cherchi. Perché nel frattempo, mentre le due famiglie e l’Italia intera seguivano con angoscia il viaggio impazzito di quell’automobile sospetta segnalata dal testimone, e che macinava chilometri e chilometri fra il nostro Paese e l’Austria come le telecamere confermavano al suo passaggio, Filippo è stato indagato per tentato omicidio, e inseguito da un mandato di arresto europeo.

Non è il momento né il caso di giudicare proprio niente: per fortuna ci penserà la magistratura. Ma se anche questo dramma rientrerà nell’orribile conteggio dei femminicidi, come tutto, fino a prova contraria, lascia immaginare, bisogna essere molto chiari almeno con le parole.

Se, a fronte di un’informazione sempre più diffusa e completa, e di leggi puntuali e punitive, e di forze dell’ordine e giudici ormai consapevoli su come prevenire e reprimere la violenza di uomini sulle donne, tale violenza invece permane anche e persino tra ventenni, significa che le famiglie non hanno educato. Che le scuole non hanno insegnato. Che la comunità non è intervenuta.

Il femminicidio non è la patologia di un “amore malato”, come ancora oggi si dice col solito e insopportabile ritornello di cercare di capire il torto dei colpevoli, anziché le ragioni delle vittime, bensì il fallimento civico e civile della società. Ogni parte di essa con la sua particina di responsabilità. Perché si è responsabili anche quando ci si nasconde, magari anche e solo per umana paura, dietro il non vedo, non sento e non parlo a proposito di pur evidenti rapporti sbagliati, cioè violenti, tra uomo e donna. Rapporti di parenti, amici, conoscenti o semplici passanti che siano.

Bisogna, invece, avere non il coraggio, ma la rettitudine di intervenire in tempo e a tutti i livelli. Se l’elementare rispetto per la donna è messo così brutalmente in discussione, è ora di fare e dare lezioni di rispetto a tavola coi propri figli, in aula coi propri alunni e nella società coi propri cittadini.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova