E sui marò (l’Aja dà ragione all’Italia) la nostra politica impari dalla nostra diplomazia

Aveva ragione l’Italia: l’India non può processare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i fucilieri della Marina catturati col sotterfugio il 15 febbraio 2012 mentre navigavano a bordo e in protezione del mercantile italiano Enrica Lexie al largo delle coste del Kerala nell’Oceano Indiano, e poi a lungo impediti di tornare in patria dalle autorità di Nuova Delhi. Vale la giurisdizione italiana, ha stabilito la Corte di arbitrato dell’Aja risolvendo il contenzioso, perché i due soldati in missione anti-pirateria erano funzionari dello Stato italiano impegnati nell’esercizio delle loro prerogative.

Meglio tardi che mai per affermare un principio che Roma ha perseguito con determinazione giuridico-diplomatica, pur fra ondeggiamenti politici su come reagire all’atteggiamento prepotente e  illegittimo dell’India, che di fatto aveva sequestrato i nostri due militari accusati d’aver ucciso Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, due pescatori del luogo scambiati per pirati. Ma i fucilieri e le autorità italiane hanno sempre negato e contestato la versione indiana, cercando un’intesa secondo verità dei fatti e intanto donando 290 mila euro “come atto di generosità” alle povere famiglie degli uccisi.

Ora il tribunale internazionale riconosce la fermezza e la coerenza dell’Italia. Anche se, per dare un contentino alla controparte sconfitta, sentenzia che Roma, “con accordi diretti fra le parti”, dovrà compensare l’India per la perdita delle due vite e i danni subiti dal peschereccio indiano. Anticipa, così, e senza averne le competenze, un giudizio che invece spetta solo alla giustizia in Italia. Ma tant’è.

La vittoria dell’Aja valga come lezione anche per l’intollerabile vicenda di Giulio Regeni, il giovane ricercatore triestino rapito, torturato e assassinato in Egitto più di quattro anni fa. Un delitto orribile sul quale le autorità del Cairo continuano a depistare, tergiversare, perfino a offendere la memoria di questo ragazzo perbene e innocente. Al di là delle parole, il regime di Al Sisi non mostra volontà alcuna di ricercare né di far ricercare la verità. A fronte della richiesta dei genitori di Giulio (“ritirare l’ambasciatore”), si adotti almeno il metodo vincente sperimentato all’Aja: nessun baratto sul principio di dignità nazionale.

Dopo tanto “dialogare” che non ha portato a nulla, è l’ora del rigore politico e diplomatico anche con l’Egitto: la verità per Giulio è un dovere nazionale e internazionale a cui il governo non può rinunciare.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi