Attaccherà o non attaccherà? Donald Trump s’è preso due settimane per decidere che fare sull’Iran, fermo restando il suo sostegno all’offensiva di Israele. A stretto giro gli ha risposto Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano che da sei giorni è in guerra con Teheran: “Con o senza Trump fermeremo il nucleare”.
La guerra delle parole non è, dunque, inferiore a quella sul campo, con missili che vanno e vengono tra Israele e Iran, “bucando” le difese e coinvolgendo civili e innocenti in entrambi i Paesi.
Per questo i ministri degli Esteri di Germania, Francia, Gran Bretagna, Ue e Iran, riuniti ieri a Ginevra per un “negoziato globale” sul nucleare, puntano a frenare almeno l’intensità del conflitto. Quant’è impervia la via diplomatica anche dopo questi primi colloqui. Limitare l’arricchimento dell’uranio -ossia ciò che l’Iran già avrebbe dovuto fare-, ecco l’oggetto del contendere.
Ma intanto sarebbe un errore considerare come un temporeggiatore il presidente degli Stati Uniti per aver deciso di non decidere. In realtà, ci sono molte ragioni e imprevedibili variabili per indurre non solo Trump alla massima prudenza nel già incandescente Medio Oriente.
Prima di tutto conta il precedente-boomerang dell’Iraq, quando il Paese fu invaso nel 2003 sul falso presupposto che bisognava fermare Saddam Hussein dallo sviluppo delle mai trovare armi di distruzioni di massa.
Gli americani pensarono a una guerra-lampo. Ma, caduto il tiranno, sono rimasti invischiati per otto anni sul territorio e con oltre 4.500 loro soldati uccisi. Col risultato che l’Iraq è ancora instabile, nonostante l’impegno degli Stati Uniti alla guida di una coalizione multinazionale.
E’ la conferma che, vinta la guerra militare, non s’è affermata la ben più rilevante pace politica, come troppo spesso accade nella storia degli interventi Usa in giro per il mondo (ultimo esempio: l’Afganistan tornato ai talebani dopo 20 anni di presenza occidentale voluta e coordinata dagli Stati Uniti).
E poi Trump è arrivato alla Casa Bianca promettendo la fine della partecipazione americana alle guerre altrui. Da ciò forse si spiega l’inspiegabile neutralismo di Trump sull’Ucraina aggredita, anche se non l’accondiscendenza dimostrata per l’aggressore Putin e le sue tesi.
Il quale Putin almeno non nasconde quello che pensa veramente, avendo ora dichiarato che “i russi e gli ucraini sono un unico popolo e in questo senso tutta l’Ucraina è nostra”.
Ma, tornando all’Iran e agli interrogativi che europei e americani si pongono: chi garantisce che, nell’ipotesi che sull’onda della guerra finisca l’odiato regime degli ayatollah, arriverà la libertà, anziché i pasdaran di più giovane generazione? La sfida del ricambio a Teheran, dopo quasi mezzo secolo di teocrazia repressiva, è un altro grande enigma.
Senza dimenticare che, chi subisce una guerra, è portato ad anteporre l’amor di Patria all’avversione per il proprio e pur terribile governo. Bisognerà vedere se e quanto il conflitto renderà più debole la “guida suprema” Ali Khamenei e che ne sarà dopo di lui.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova